Buona festa della Liberazione

Buon 25 Aprile: Alla memoria partigiana è dedicato questo giorno nel quale si “festeggia” la liberazione dell’Italia dall’oppressione Fascista. E’ il momento del ricordo per rinsaldare le nostre radici, a cui, da Napoletano, non posso non aggiungere il ricordo per la “mancata” liberazione del 1799. 122 martiri giustiziati per aver immaginato la Repubblica Napoletana secondo gli ideali della Rivoluzione Francese di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza. Cosa sarebbe diventata Napoli e l’Italia se gli ideali repubblicani avessero prevalso sulla monarchia borbonica? I nomi dei martiri napoletani sono su due lapidi all’interno di Palazzo San Giacomo, a loro ed ai partigiani va dedicata questa giornata di riflessione, per aver avuto il coraggio di anteporre i loro ideali alle loro stesse vite. Viva La Repubblica Napoletana Viva l’Italia Antifascista!

Il Diritto allo Sport

Ieri sono stato eletto Presidente della Commissione Sport e Pari Opportunità del Comune di Napoli. Incarico che mi riempie di orgoglio e che cercherò di onorare con il mio impegno e la mia esperienza con spirito di collaborazione e di servizio. Spero di essere all’altezza delle aspettative. Stamane, nel mio nuovo ruolo ho presentato la prima delibera di iniziativa consiliare dell’amministrazione Manfredi, con l’obiettivo di inserire nello Statuto del Comune di Napoli il Diritto allo Sport come diritto fondamentale del Cittadino. La proposta è stata sottoscritta da tutte le Forze di Maggioranza che ringrazio pubblicamente. Un buon inizio per migliorare la vivibilità della nostra città e per affermare un principio che non resterà lettera morta ma che rappresenterà un viatico per l’azione amministrativa del Comune di Napoli. Io mi impegnerò per questo!

CONSIGLIO COMUNALE DI NAPOLI

PROPOSTA DI DELIBERA DI INIZIATIVA CONSILIARE

di modifica dello Statuto Comunale

AI SENSI DELL’ART. 42 DEL T.U.E.L. E DELL’ART. 54 DEL REGOLAMENTO

DEL CONSIGLIO COMUNALE

Premesso che:

I.- Lo sport, pur non trovando esplicita collocazione nella Carta Costituzionale, per ragioni storiche, è senz’altro oggetto di un riconoscimento implicito essendo desumibile nel diritto di espressione della personalità, sia come singolo che nelle “formazioni sociali” (art. 2 Cost.), nel diritto di associazione (art. 18 Cost.) e nel diritto alla salute (art. 32 Cost.);

2.- la pratica sportiva ha un ruolo fondamentale per la crescita individuale e sociale dei cittadini essendo una vera e propria politica sociale di integrazione, di prevenzione dalle devianze e di recupero dalle marginalità sociali contribuendo, altresì, al benessere psicofisico della persona;

3.- la Corte Costituzionale, con sentenza n. 57 del 25.03.1976, ha affermato che “lo sport è un’attività umana cui si riconosce un interesse pubblico tale da richiederne la protezione e l’incoraggiamento da parte dello Stato”;

4.- la pluralità delle discipline sportive rappresenta un valore irrinunciabile e culturale e consente ai cittadini di poter liberamente scegliere la pratica sportiva più idonea alle proprie esigenze;

5.- il diritto allo sport trova esplicito riconoscimento nell’Art. 165 del Trattato dell’Unione Europea, a mente del quale “L’Unione contribuisce alla promozione dei profili europei dello sport, tenendo conto delle sue specificità, delle sue strutture fondate sul volontariato e della sua funzione sociale ed educativa”;

6.- diverse sono le proposte di revisione della Carta Costituzionale con esplicita previsione del Diritto allo Sport tra i diritti fondamentali;

7.- nello statuto del Comune di Napoli, manca un riconoscimento esplicito del diritto allo sport come bene fondamentale della persona;

8.- il diritto allo sport trova la sua naturale collocazione nell’art. 3 dello Statuto del Comune di Napoli che si intitola “Finalità” che può essere completato con l’aggiunta del comma 5.

° ° °

Tanto premesso i sottoscritti Consiglieri Comunali ai sensi e per gli effetti dell’art. 42 del T.U.E.L. e dell’art. 54 del Regolamento del Consiglio Comunale,  

propongono

al Consiglio Comunale di adottare la seguente proposta di delibera consiliare:

.- modificare lo Statuto del Comune di Napoli, approvato con deliberazione n. 1 del 16.10.1991 e successive integrazioni e modifiche, aggiungendo all’art. 3, dopo il comma 4, il comma 5 dal seguente tenore letterale:

5.- Il Comune di Napoli, riconosce e favorisce espressamente il diritto allo svolgimento dell’attività sportiva e ricreativa, sostiene e concorre alla promozione ed alla diffusione di tutte le discipline sportive sul territorio comunale, riconoscendone il valore culturale, sociale e di prevenzione sanitaria. Per raggiungere tali finalità il Comune favorisce l’istituzione di enti, organismi e associazioni ricreative e sportive; promuove, inoltre, la creazione e la gestione di idonee strutture, servizi e impianti e ne assicura l’accesso ad enti, organizzazioni di volontariato, associazioni e singoli cittadini. Le modalità di utilizzo delle strutture sportive, servizi e impianti in gestione o di proprietà comunale sono disciplinate dal regolamento che prevede anche il concorso alle spese di funzionamento, salvo che non sia prevista la gratuità per finalità di carattere sociale, di prevenzione sanitaria, o per attività rivolte a particolari fasce di età o cittadini con diverse abilità o con disagio economico/sociale”.

Napoli, 13 dicembre 2021

F.to Cons. Gennaro Esposito Manfredi Sindaco

(I firmatario)

F.to Cons. Aniello Esposito PD

F.to Cons. Ciro Borriello M5S

F.to Cons. Gennaro Rispoli Napoli Libera

F.to Annamaria Misto Azzurri Noi Sud Napoli Viva

F.to Sergio D’Angelo Napoli Solidale Europa Verde

La Crisi della Giustizia

Il terremoto giudiziario in corso al CSM non accenna a ridursi nella sua dimensione, giungendo a colpire la massima espressione del suo vertice, nella persona del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, componente di diritto del CSM, titolare (ironia della sorte) del potere disciplinare sui magistrati ed egli stesso coinvolto nelle vicende che colpiscono al cuore il sistema giudiziario, costretto al prepensionamento e, purtroppo, anch’egli oggetto di indagine. Lo spaccato di questi giorni, rivela una innaturale osmosi tra politici ed alti Magistrati, in cerca di protezione i primi, di incarichi i secondi, il tutto condito, sembrerebbe, da un “prosaico” scambio di danaro e favori di vario genere e natura. Allo scandalo Nazionale si accompagna, per una sorta di congiunzione astrale, quello Napoletano, con un magistrato, in buona compagnia (si fa per dire), di un consigliere della decima municipalità, un avvocato ed un personaggio vicino ad un clan camorristico, intenti, sembrerebbe, a comprare sentenze di assoluzione e ad influenzare l’esito di concorsi pubblici fino a quello in Magistratura. Come dire, a Napoli non ci facciamo mancare niente! Cala, purtroppo, il sentimento di fiducia nella Magistratura, poco compresa dai Cittadini, primi utenti del sistema e, nella stragrande maggioranza dei casi, poco avvezzi a codici e codicilli. Sfiducia che registriamo noi avvocati, che per il ruolo sociale che svolgiamo, abbiamo un osservatorio privilegiato sulla cittadinanza. Alla naturale sfiducia in una giustizia che arriva fuori tempo massimo, o avvolta in cavillose questioni processuali non comprensibili ai normali utenti, si aggiunge il sospetto, già strisciante tra i cittadini, di una magistratura permeabile alle “pressioni”. Una sorta di credenza popolare, rafforzata dagli ultimi eventi, che si manifesta, purtroppo, fin dal primo approccio con il mondo della giustizia e con la quale, noi avvocati, dobbiamo fare i conti, tentando di rassicurare cittadini circa la tenuta del sistema. Una Magistratura non indipendente e non imparziale, infatti, mina alla base il lavoro dell’avvocato che verrebbe relegato a ruolo di “faccendiere”. Il Guardasigilli per correre ai ripari annuncia, in modo avventato e forse poco credibile, per la dimensione dell’impegno che richiederebbe, riforme da varare in dieci giorni del processo civile, del processo penale e del sistema di elezione del CSM. A mio sommesso avviso e per esperienza maturata tra “legulei”, il problema non è tanto di regole (fatta la legge scoperto l’inganno), ma di donne ed uomini. Occorre un cambiamento culturale che innalzi il livello di moralità, che può avvenire rapidamente solo se coloro che, essendo (si spera) la stragrande maggioranza, si decidano a scendere in campo, rifiutando di delegare la loro rappresentanza a scatola chiusa e senza alcuna verifica o, peggio ancora, dietro promessa di protezione o di qualsivoglia altra forma di ricompensa. Ne va del bene del Paese!

Gennaro Esposito

Avvocato del Foro di Napoli

Dalla politica del bisogno alla politica dei diritti

gennaro consiglioDiciamola così: La gente ti vota solo se gli tappi le buche sotto casa, fai togliere qualche multa, fai accendere qualche lampione in più, fai eliminare la discarica abusiva da sotto casa, fai eliminare qualche infiltrazione dal tetto in un immobile comunale, fai pagare prima qualche creditore e cose di questo tipo. Insomma tutte cose che soddisfano un interesse diretto ed immediato, assolutamente legittimo ma che il più delle volte è di competenza della municipalità. Se, invece, ti occupi dell’interesse generale cercando di risolvere problemi una volta per tutte andando alla radice (come nel caso delle case famiglia (clikka), fai cambiare una decisione sbagliata adottata anni addietro e non più attuale (come quella del mercato ittico di napoli (clikka) o fai in modo che l’amministrazione risparmi o incassi anche milioni di euro mediante un più accurato sfruttamento dei beni pubblici (come nel caso dello stadio san paolo clikka) o insisti per l’adozione di misure di sviluppo territoriale (clikka), allora non se ne può fregare nessuno. Alla fine tutti vanno alla ricerca del piacere o della promessa del piacere solo che così facendo si adottano decisioni estemporanee senza alcuna programmazione e nell’interesse seppure legittimo di quei pochi. Ad esempio le buche vengono riparate a macchia di leopardo con una misurata colata di asfalto che andrà via al prossimo acquazzone, mentre occorrerebbe adottare un piano di manutenzione programmato; la discarica viene eliminata al momento ma senza un piano di controlli efficaci si riformerà di nuovo ed allora occorrerà di nuovo chiamare il consigliere senza aver ottenuto il risultato concreto e definitivo. In sostanza del bene e dell’interesse generale poi non se ne frega nessuno il che determina uno sviamento dell’azione di controllo e di gestione che alla fine non affronta mai i problemi così come vanno affrontati.

Diciamo che lo stato di bisogno e lo sfascio amministrativo alimenta la macchina del consenso e quindi è assolutamente funzionale sia ai cittadini che ai politici. Il salto di qualità lo potremo fare nel momento in cui alla politica del bisogno sostituiremo la politica dello sviluppo e dei diritti.

L’Idealista politico (clikka)

Chi è e cosa fa la società civile nell’istituzione

gennaro consiglioMi trovo ad essere un esponente della società civile che, per un caso assolutamente fortuito, si trova nell’istituzione e, dopo oltre tre anni di esperienza, mi sorgono spontanee alcune domande:

1) Qual è il ruolo della società civile che entra nell’istituzione attraverso una lista civica?

2) che differenza c’è tra un esponente della società civile ed un esponente di partito?

3) vale per gli esponenti della società civile il linguaggio proprio dei partiti?

4) vale per gli esponenti della società civile la semplificazione tanto cara ai “giornalai” di maggioranza/opposizione?

5) a cosa è vincolata la società civile rappresentata nelle istituzioni?

Ora vi posso assicurare che se a queste domande farete rispondere un esponete di partito o uno che è stato “drogato” dalla politica o che cerca di scimmiottare i partiti avrete delle risposte diametralmente opposte a quelle che potrebbe dare un libero cittadino/amministratore che è entrato, diciamo in un consiglio comunale, perché si era scocciato dei soliti riti, della solita solfa, non avendo trovato nessuno in grado di rappresentarlo. Parrebbe logico, allora, che il cittadino/amministratore pubblico di certo non imiterà il comportamento di quelli di cui non si fidava.

Chi viene dalla società civile “dovrebbe” portare con se uno spirito libero scevro dalle logiche di partito, senza piegarsi al binomio maggioranza/opposizione e sfuggire ad un linguaggio che fino ad un minuto prima di entrare nell’istituzione gli era, se non sconosciuto, sicuramente negletto. E’, altresì, chiaro che per fare questo il cittadino/amministratore dovrà, gioco forza, lavorare il triplo perché avrà il dovere di valutare atto per atto e, quindi, studiare anche molto, per capire se viene perseguito l’interesse pubblico. L’esponente di partito, o il cittadino che cerca di scimmiottare l’esponente di partito, per sentirsi pari o più affidabile, invece, deciderà secondo la logica maggioranza/opposizion: Senza studiare nulla, voto contro o a favore perché mi sento di opposizione o di maggioranza.

La cosa triste è che anche i pennivendoli, “giornalai” venditori di carta straccia (salvo rarissime eccezioni) per semplificarsi il lavoro sono legati a questa logica maggioranza/opposizione proprio perché è comoda e non impone né di seguire un consiglio comunale (che può durare anche un intero giorno) né di studiarsi le carte.

Il cittadino/amministratore, in sostanza, pensa che le cose si debbano fare nell’interesse dei cittadini, sempre e comunque, a prescindere da chi le fa e sulla base di questo principio dovrebbe tracciare la linea del suo comportamento istituzionale improntato solo ed esclusivamente sul programma elettorale unico vincolo a cui ancorarsi proprio perché non di partito.

Questa considerazione, ad esempio, rende inconcepibile la sorta di “quadriglia” che spesso si mette in scena nelle assemblee consiliari, uscendo dall’aula per far cadere il numero legale, al solo scopo di dimostrare che la maggioranza non ha i numeri, anche quando ci sono da votare delibere importanti e da discutere nell’interesse pubblico. Questo è, infatti, un comportamento barbaro mutuato dalla peggiore politica dei partiti dal quale l’esponente della società civile dovrebbe stare lontano, perché ha l’obbligo, più degli altri, di entrare sempre nel merito. Basti pensare che nel parlamento tedesco se un componente della maggioranza è assente per giustificati motivi, dall’aula, esce anche un componete dell’opposizione al fine di lasciare immutati gli equilibri dovendo vertere lo scontro politico sulle cose concrete da fare e non sulla mera strategia di posizionamento.

L’apporto dell’esponente della società civile nell’istituzione, quindi, deve essere quello di sottrarsi alla logica ed al linguaggio strettamente partitico, con l’obbligo di migliorare il comportamento istituzionale, senza piegarsi alla barbarie dei partiti ma, anzi, ponendosi l’alto compito di migliorarli, dando l’esempio e dimostrando che molti riti e categorie della politica sono sbagliati e non nell’interesse dei cittadini perché improntati ad una logica strettamente partitica e non nell’interesse pubblico. Ma questo ovviamente lo dico perché sono un idealista politico (clikka).

vedi anche:

l’esperienza de magistris e la società civile (clikka)

I lanciaRazzi sulla Costituzione Italiana

razziSi parla tanto di riforme costituzionali e di abolizione del senato e, quindi, del bicameralismo perfetto, ma il marcio non è nella struttura dello Stato, ovvero non tutto nella struttura dello Stato, che fu pensata, con pesi e contrappesi, per garantire la democrazia dopo il ventennio fascista.

Paradossalmente, il Parlamento funzionerebbe male anche se si dovesse prevedere una camera con soli 100 deputati, se questi 100 deputati saranno selezionare come si selezionano oggi (senza, ovviamente, considerare le pericolose derive antidemocratiche).

Per intenderci un antonio razzi resta tale sia in un Parlamento di due camere che in un Parlamento composto da una sola camera! Anzi, forse in quello con due camere, gli antonio razzi, vengono diluiti e mediati. E quanti antonio razzi abbiamo in parlamento?

L’istituzione è fatta da uomini e se gli uomini vengono scelti così come avviene oggi l’istituzione funzionerà sempre male. Prima di mettere le mani sulla costituzione sarebbe il caso di mettere mano ad una seria moralizzazione della vita politica, dei politici e ad una legge che disciplini  i partiti politici, ma per fare questo ci vogliono gli uomini e torniamo sempre allo stesso punto, quindi, si corre il rischio di cambiare gli strumenti ma la musica potrebbe rimanere sempre la stessa …. o addirittura peggiorare.

Odio gli indifferenti

gramsci“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e  partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è  vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.  L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.
Antonio Gramsci – Indifferenti 11 febbraio 1917

Questo scritto di Antonio Gramsci mi ha fatto venire in mente ciò che scrivevo nel 2009 in occasione delle elezioni Politiche che mi fa piacere riproporVi e che, in un certo modo, spiega anche con quale animo poi nel 2011 mi sono candidato nella lista civica Napoli è Tua a sostegno di Luigi De Magistris…

Da: genn.esposito@libero.it
Data: 26/05/2009 21.28
A: <<neaneapolisagoghe@googlegroups.com>>,
Ogg: Gli ignavi

Qualche giorno fa mi sono ritrovato a rileggere, con non poca impressione,
il III Canto della Divina Commedia che vi incollo nella parte più tragica (per me):
” Ed elli a me: <<Questo misero mondo tengon l’anime triste di coloro che  visser sanza ‘nfamia e senza lodo.

Mischiate sono a quel cattivo coro de li angeli che non furono ribelli né  fur fedeli a Dio, ma per se fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli, né lo profondo inferno li riceve,  ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli….>>.

L’effetto su di me è stato immediato, il buon Dante mi ha dato una bella scossa e che faccio?… Che faccio me lo chiedo e me lo sto chiedendo.

Intanto mi arrivano via e-mail e per posta varie richieste di voto per questo o per quello. Ed allora l’alternativa qual è: da un lato in pochi giorni un premier che si rifiuta di rispondere ai giornalisti; che dichiara di non avere alcun potere esecutivo; che dichiara il parlamento in sovrannumero, perché dovrebbe essere composto al massimo da 100 persone; che accusa i giudici che lo hanno giudicato di essere politicamente schierati contro di lui.

 …. No .. No non posso proprio non ce la faccio! è contro i  miei elementari principi (neppure politici) è vero che la dittatura costa di meno, ma è anche vero che la libertà non ha prezzo! non voto a  destra ! (seppure ci fosse una destra). Dall’altro abbiamo una sinistra che non ha avuto il coraggio di  assumere le decisioni importanti per la nostra Napoli volendo, per ridurre i danni,  essere campanilistico; mi sarei almeno aspettato, dopo lo scandalo  munnezza (termine divenuto internazionale) e quello Romeo (che non  è quello di Giulietta), una dichiarzione o una presa di posizione della sinistra per scollare bassolino e la iervolino dalle loro rispettive poltrone, facendo politicamente piazza  pulita di tutti quelli che sono stati trovati con le mani nella marmellata. Forse  che non me lo merito o non ce lo meritiamo noi  napoletani ?? E’  avvilente!

Poi la dichiarazione di invito al voto di Fraceschini ad anno  zero: andate a votare per noi perché se vince Berlusconi con un  plebiscito è in pericolo la democrazia …. Ma è possibile che sono costretto a rimanere un ignavo nonostante  dall’altro lato c’è un partito/persona che politicamente non ha  nulla ? c’è ghedina, calderoli, bossi (solo a pensarci mi viene la  pelle d’oca) C’è una via d’uscita ? Io per il momento non l’ho  ancora trovata,  mi piacerebbe sapere Voi che avete come me un  futuro da regalare ai vostri figli….   mi piacerebbe non sentirmi un ignavo e partecipare con il mio voto  al futuro di questo Paese.

Spero sempre che queste mie e-mail entrino in punta di piedi nelle  Vostre caselle di posta.
saluti
gennaro

La politica che uccide l’amministrazione

controlliLa mia esperienza come consigliere comunale di Napoli mi porta a dire che la politica che stiamo vivendo è assolutamente pervasiva e spesso invade campi che non dovrebbe invadere, come quello riservato alla valutazione della legittimità dell’azione amministrativa nonché ai principi di imparzialità, indipendenza e buon andamento della pubblica amministrazione, campo che negli enti locali è appannaggio e garanzia per i cittadini, dei Dirigenti e dei Segretari Comunali nonostante le ultime riforme che ne hanno indebolito l’autonomia.

Oggi la burocrazia per come è congeniata ha due velocità, da una parte assolutamente supina alla politica, dall’altra assolutamente incomprensibile per il cittadino che ne rimane schiacciato.

Per mia diretta esperienza ci troviamo sempre più davanti ad una classe politica squalificata, che non conosce i principi costituzionali, se non per sentito dire, né i principi cardine di ogni azione amministrativa. Ebbene, in questo stato di cose il politico spesso è preda, spesso è protagonista, di vere e proprie azioni scellerate che risentono in minima parte del controllo della burocrazia che, negli enti locali si articola come detto nei dirigenti e nella figura del Segretario Comunale i cui controlli si sono via via assottigliati attraverso il sistema della chiamata dei Segretari comunali ed attraverso il sistema dei cd. Dirigenti a contratto, quindi, asserviti al Sindaco, Presidente di Regione etc etc.

A fronte di questo stato di cose il cambiare verso dell’attuale governo, posso dire che è assolutamente inconcepibile poiché va verso la eliminazione dei minimi controlli e verso la “schiavizzazione della burocrazia” alla politica. In sostanza al n. 13 del programma di Renzi nella lettera ai dipendenti pubblici (clikka) si prevede espressamente l’abolizione della figura del Segretario Comunale nonché una riforma radicale della dirigenza pubblica che va verso la precarizzazione di tutti i dirigenti, di modo che un dirigente dopo aver vinto un concorso pubblico resta in attesa di essere chiamato ed una volta chiamato, per restare, è chiaro che sarà disposto a fare qualunque cosa per ingraziarsi il politico di turno fino a chiudere tutti e due gli occhi.

A comandare sarà solo ed esclusivamente la politica, il Sindaco, il Presidente di Regione, il Presidente del Consiglio etc etc. La riforma della dirigenza è ampiamente spiegata in un articolo del Dott. Oliveri di cui consiglio la lettura (clikka).

Per farvi comprendere vi posso dire che io stesso nell’ambito della mia azione di indirizzo e controllo riservatami della legge, per capire come stanno veramente le cose, prima di leggere una delibera mi leggo il parere del Segretario Comunale e poi quello dei Dirigenti dei Servizi, al fine di evitare di incorrere in responsabilità e spesso trovo che i rilievi critici che riscontro contribuiscono a formare il mio convincimento.

Nella mia esperienza, infatti, posso fare tanti esempi tra cui quello dell’inconcepibile acquisto di Piazza Garibaldi (clikka), quello della delibera di racapitalizzazione di Bagnoli futura (clikka), ma anche tutta l’azione che ho portato avanti sul sullo stadio e sulla debitoria del calcio napoli verso il comune (clikka).

Ora per chiarire ai cittadini l’azione del governo del cambiare verso non è volta ad eliminare la burocrazia, ma solo ad eliminare i controlli sull’azione amministrativa spesso portata avanti da gente che non ha neppure le nozioni della scuola dell’obbligo, altrimenti non ci spiegheremmo i tanti interventi della Corte dei Conti! Spero che la politica abbia un ripensamento e non farà corpo per avere le mani libere … di metterle nelle nostre tasche ….

I luoghi di confronto degli operai

garittoneATAN quando i luoghi di lavoro erano anche collettivi di socialità: Era il 1982 il mio primo maestro di lotta olimpionica stile libero era un autista: Giuseppe Bardellino. Prima gara primo oro ai nazionali esordienti. I colleghi di papà mi portarono in un ristorante, ero un ragazzino e mi festeggiarono con questa targa. Se guardo indietro vedo questo, mentre se guardo avanti c’è il deserto sociale. Oggi ci dobbiamo inventare associazioni, centri sociali, assemblee pubbliche, assisi cittadine e collettivi vari. Ieri i luoghi di lavoro erano luoghi dove gli operai si scambiavano sangue, sudore e soprattutto pensieri e conforto. Al Garittone (deposito degli autobus di Napoli Nord) oltre alla Cassa di Soccorso c’era addirittura il barbiere, si organizzavano gite tra gli operai e c’era la cd. riservata un autobus che in estate veniva usato per portare le famiglie dei dipendenti al mare di Licola, c’era poi il Cral ATAN che faceva la befana a tutti i bambini dei dipendenti. Da bambino quando andavo al Garittone mi piaceva sentire l’odore della nafta e mi divertivo un mondo quando mio padre mi faceva aprire e chiudere le porte degli autobus.

La sinistra ha iniziato a perdere da quando ha incominciato a ritirarsi dai luoghi di lavoro, ritenendoli semplicemente luoghi di produzione, soggetti ai tagli aziendali e regalando i voti degli operai alla lega nord, a berlusconi ed oggi al m5s.

La Classe Dirigente e l’esperienza Napoletana

ricostruzioneOggi (23.02.2014) il leitmotiv di tutti i giornali cittadini è che nel governo renzi non c’è classe dirigente Campana. Tra coloro che hanno fatto la “scoperta” c’è anche la neo segretaria regionale del partito democratico che è essa stessa il risultato del disastro politico del partito democratico, zavorrato dalla lotta tra bande per la occupazione del potere. So che può essere autoreferenziale ma lo stato attuale ci impone di intervenire anche perché sono stanco di fare solo il grillo parlante. Atti politici ed amministrativi alla mano posso dire che Ricostruzione Democratica è l’unico esempio di classe politica attualmente vivente in Campania. Siamo tre Consiglieri con il supporto di tanti amici che ci seguono e dobbiamo pur sperare di vedere una luce fuori dal tunnel. Qualche amico mi ha anche detto ma perché non mettete in risalto il fatto che voi, in molte occasioni, avete anticipato i tempi indicando come esempio la questione Bagnoli.

Parto dall’inizio rinviandovi per ogni punto alle decisioni, spesso sofferte, che abbiamo dovuto prendere durante l’attività consiliare e che sono state sempre il frutto di studio e di un confronto aperto con un gruppo che, nel corso di questi quasi tre anni, si è variamente composto intorno a noi. Forse qualche valutazione la avremmo anche sbagliata ma nelle decisioni importanti posso dire che abbiamo anticipato i tempi ogni volta. Abbiamo, infatti, avuto la capacità e la lungimiranza di capire prima cosa stava accadendo. Oggi ho solo il rammarico verso l’amministrazione che almeno avrebbe potuto esaminare con maggiore approfondimento le nostre ragioni spesso ampiamente argomentate. Forse i giornali avrebbero potuto darci maggiore spazio contribuendo a formare l’opinione pubblica e, quindi, una speranza. Sono consapevole delle nostre forze ma credo che abbiamo il dovere di parlare e di sperare fino in fondo per non lasciare spazio a coloro che sono esperti nell’arte del “riciclo”

Parto pertanto dall’inizio:

1) A giugno 2012, quando De Magistris era ancora il capo indiscusso della “rivoluzione” ed i partiti erano ancora tramortiti (lo sono tuttora) segnalammo tutte le difficoltà connesse all’amministrazione solitaria di De Magistris ed io e Carlo Iannello, non votammo il bilancio preventivo (clikka), restando isolati perché nessuno dell’allora maggioranza ed in particolare dei compagni i Napoli è Tua ci seguì, perché il capo era ancora troppo forte e mettersi contro non era “politicamente” conveniente anzi fummo attaccati e dovemmo difenderci con l’aiuto di coloro che ci seguivano, Ricordo l’assemblea del 4 luglio 2012  che volemmo (clikka);

2) il 16 ottobre 2012 proponemmo la liquidazione di Bagnoli Futura (clikka) cosa a cui siamo arrivati adesso, ma ovviamente allora i partiti non ci pensarono proprio. Forse oggi se ci avessero ascoltato avremmo già adottato delle soluzioni per le aree e per i lavoratori;

3) sulle condizioni economiche/finanziarie dell’amministrazione siamo sempre intervenuti, assumendo anche la posizione impopolare e “politicamente” non conveniente, al consiglio del 15.07.2013, dicendo che era impossibile fare nuove assunzioni votando contro la delibera 518/2013 (clikka) e censurando le agostane assunzioni dei dirigenti (clikka);

4) anche sullo Stadio San Paolo abbiamo assunto una posizione impopolare e “politicamente” non conveniente, perché contraria ai voleri del Patron, esponendoci, senza essere ascoltati né dal sindaco né da assessori chem solo aver lasciato la poltrona, hanno avuto il coraggio di dire pubblicamente ciò che noi dicevamo da oltre due anni. E’ recente il sequestro dei conti del Calcio Napoli (clikka).

5) consapevoli della necessità di formare una classe dirigente a gennaio 2013 ci siamo caricati sulle spalle la scuola di politica e di amministrazione (clikka) stanchi di essere inascoltati dai partiti che hanno sempre usato ed usano un sistema di selezione “poltronistico” e di spartizione e non sul merito. Posso dire che in politica fino ad ora non ho visto nessuno studiarsi una carta si parla per sentito dire;

6) del San Carlo parlammo pubblicamente il 2 ottobre 2013 al consiglio comunale (clikka) cercando di avvertire per tempo, restando, invece, ancora una volta inascoltati.

Tutte decisioni frutto di studio e di confronto con i cittadini e le parti sociali. Tante e tante altre cose fatte perché da persone estranee alla politica e con un ruolo professionale nella società, abbiamo messo a frutto anni di esperienza e di studi cosa assolutamente estranea ai partiti. Se mi guardo alle spalle vedo tanta strada fatta, ma se guardo avanti non vedo l’orizzonte. Non abbiamo intenzione di fermarci e faremo tutto ciò che ci è possibile per fare in modo che prevalgano le ragioni di cui noi ci siamo fatti portatori senza risparmiarci.

Legge elettorale e Principi Costituzionali: Parla la Corte!

corte costituzionaleLa corsa alla legge elettorale mi sembra una semplice manifestazione di forza. La Ditta R & B (renzi & berlusconi) vorrebbero dimostrare agli italiani che loro sono bravi. Peccato che il cd Italicum allo stato dimostra solo una cosa che o sono ciucci, perché non hanno letto la sentenza della Consulta n. 1/2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del porcellum, oppure sono in mala fede! In qualunque altro posto del mondo mai nessun politico si sarebbe permesso di non tenere conto delle indicazioni del Giudice di legittimità. A questo punto se le cose andranno avanti così non resta altro che sperare in un intervento del Presidente della Repubblica, nella sua funzione di depositario dei valori della Costituzione e, quindi, si rifiuti di firmare la legge che uscirà dal parlamento se in contrasto con i principi espressi dalla Consulta. Non voglio dire altro perché è chiarissima la sentenza che vi incollo nella sua versione integrale che, per comodità, ho diviso in due sezioni Premio di Maggioranza e Liste Bloccate, evidenziandovi in grassetto le parti importanti nelle quali la Corte sancisce i principi. Saltate la prima parte se non ne avete voglia ed andate al punto 3.1 ma leggetela. Leggete anche solo le parti evidenziate, penso sia un dovere per ogni cittadino leggerla per rendersi conto che la legge elettorale è la base della democrazia.

SENTENZA N. 1

ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, 59 e 83, comma 1, n. 5 e comma 2 del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), nel testo risultante dalla legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica); degli artt. 14, comma 1, e 17, commi 2 e 4, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), nel testo risultante dalla legge n. 270 del 2005, promosso dalla Corte di cassazione nel giudizio civile vertente tra Aldo Bozzi ed altri e la Presidenza del Consiglio dei ministri ed altro con ordinanza del 17 maggio 2013 iscritta al n. 144 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visto l’atto di costituzione di Aldo Bozzi ed altri;

udito nell’udienza pubblica del 3 dicembre 2013 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

uditi gli avvocati Claudio Tani, Aldo Bozzi e Felice Carlo Besostri per Aldo Bozzi ed altri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 17 maggio 2013, la Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, 59 e 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), nel testo in vigore con le modificazioni apportate dalla legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica), nonché degli artt. 14, comma 1, e 17, commi 2 e 4, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), nel testo in vigore con le modificazioni apportate dalla legge n. 270 del 2005, in riferimento agli artt. 3, 48, secondo comma, 49, 56, primo comma, 58, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, anche alla luce dell’art. 3, protocollo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952).

1.1.– Il rimettente premette di essere chiamato a pronunciarsi sul ricorso promosso nei confronti della sentenza della Corte d’appello di Milano, resa il 24 aprile 2012, con cui quest’ultima, confermando la sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda con la quale un cittadino elettore aveva chiesto che fosse accertato che il suo diritto di voto non aveva potuto e non può essere esercitato in coerenza con i principi costituzionali.

In particolare, la Corte di cassazione precisa che il suddetto cittadino elettore aveva convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, la Presidenza del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’interno, deducendo che nelle elezioni per la Camera dei deputati e per il Senato della Repubblica svoltesi successivamente all’entrata in vigore della legge n. 270 del 2005 e, specificamente, in occasione delle elezioni del 2006 e del 2008, egli aveva potuto esercitare il diritto di voto secondo modalità configurate dalla predetta legge in senso contrario ai principi costituzionali del voto «personale ed eguale, libero e segreto» (art. 48, secondo comma, Cost.) ed «a suffragio universale e diretto» (artt. 56, primo comma e 58, primo comma, Cost.). Pertanto, chiedeva fosse dichiarato che il suo diritto di voto non aveva potuto e non può essere esercitato in modo libero e diretto, secondo le modalità previste e garantite dalla Costituzione e dal protocollo 1 della CEDU, e quindi chiedeva di ripristinarlo secondo modalità conformi alla legalità costituzionale. A tal fine eccepiva l’illegittimità costituzionale di svariate disposizioni delle leggi elettorali della Camera e del Senato. Il Tribunale di Milano, dinanzi al quale svolgevano interventi ad adiuvandum venticinque cittadini elettori, con sentenza del 18 aprile 2011, rigettava le eccezioni preliminari di inammissibilità per difetto di giurisdizione e insussistenza dell’interesse ad agire e, nel merito, respingeva le domande, giudicando manifestamente infondate le proposte eccezioni di illegittimità costituzionale. Avverso tale decisione veniva proposto appello che veniva, tuttavia, anche quanto alla fondatezza dell’eccezione di illegittimità costituzionale, respinto nel merito.

1.2.– In linea preliminare, la Corte di cassazione rileva, anzitutto, che sulla questione della sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 100 del codice di procedura civile, in specie sull’interesse dei predetti a proporre un’azione di accertamento della pienezza del proprio diritto di voto, quale diritto politico di rilevanza primaria, di cui sarebbe precluso l’esercizio in modo conforme alla Costituzione dalla legge n. 270 del 2005, si è formato il giudicato, considerato che i giudici di merito avevano respinto le relative eccezioni delle amministrazioni convenute in giudizio e che queste ultime non hanno proposto ricorso incidentale.

1.3.– Il rimettente afferma, inoltre, che anche sulla questione della giurisdizione si è formato il giudicato, non essendo stata più riproposta. Un’azione di accertamento di un diritto, d’altra parte, non avrebbe potuto che essere promossa dinanzi al giudice ordinario, giudice naturale dei diritti fondamentali, non interferendo in nessun modo con la giurisdizione riservata alle Camere, tramite le rispettive Giunte parlamentari (art. 66 Cost.), in tema di operazioni elettorali.

1.4.– Quanto, poi, alla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale proposte, la Corte di cassazione ne ravvisa la sussistenza sulla base della considerazione che l’accertamento della pienezza del diritto di voto non può avvenire se non all’esito del controllo di costituzionalità delle norme di cui alla legge n. 270 del 2005, da cui si ritiene derivi la lesione del predetto diritto.

1.5. – Ancora preliminarmente, il rimettente rileva, infine, che, nella specie, sussiste il necessario nesso di pregiudizialità delle questioni di legittimità costituzionale proposte rispetto al giudizio principale, posto che quest’ultimo deve essere definito con una sentenza che accerti la portata del diritto azionato e lo ripristini nella pienezza della sua espansione, anche se per il tramite della sentenza della Corte costituzionale. Il petitum del giudizio principale sarebbe, pertanto, separato e distinto rispetto a quello oggetto del giudizio di legittimità costituzionale. Peraltro, nei casi di leggi che, nel momento stesso in cui entrano in vigore, creano in maniera immediata restrizioni dei poteri o doveri in capo a determinati soggetti, i quali, pertanto, si trovano per ciò stesso già pregiudicati da esse, come nel caso in esame delle leggi elettorali, l’azione di accertamento rappresenterebbe l’unica strada percorribile per la tutela giurisdizionale di diritti fondamentali di cui, altrimenti, non sarebbe possibile una tutela efficace e diretta.

1.6.– Nel merito, la Corte di cassazione, in contrasto con quanto ritenuto dai giudici di merito, premette che l’assenza di una espressa base giuridica della materia elettorale nella Costituzione non autorizza a ritenere che la relativa disciplina non debba essere coerente con i conferenti principi sanciti dalla Costituzione ed in specie con il principio di eguaglianza inteso come principio di ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost., e con il vincolo del voto personale, eguale, libero e diretto (artt. 48, 56 e 58 Cost.), in linea, peraltro, con una consolidata tradizione costituzionale comune a molti Stati.

Né varrebbe ad escludere la possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale delle leggi elettorali l’obiezione che, rientrando queste ultime nella categoria delle leggi costituzionalmente necessarie, non ne sarebbe possibile l’espunzione dall’ordinamento nemmeno in caso di illegittimità costituzionale, poiché, in tal modo, si finirebbe col tollerare la permanente vigenza di norme incostituzionali, di rilevanza essenziale per la vita democratica di un Paese. D’altra parte, la Corte di cassazione sottolinea che le questioni di legittimità costituzionale proposte non mirano «a far caducare l’intera legge n. 270/2005, né a sostituirla con un’altra eterogenea, impingendo nella discrezionalità del legislatore», ma solo a «ripristinare nella legge elettorale contenuti costituzionalmente obbligati, senza compromettere la permanente idoneità del sistema elettorale a garantire il rinnovo degli organi costituzionali». A tal proposito la Corte di cassazione sottolinea che «tale conclusione non è contraddetta né ostacolata dalla eventualità che si renda necessaria un’opera di mera cosmesi normativa e di ripulitura del testo per la presenza di frammenti normativi residui, che può essere realizzata dalla Corte costituzionale, avvalendosi dei suoi poteri (in specie di quelli di cui all’art. 27, ultima parte, della legge n. 87 del 1953) o dal legislatore in attuazione dei principi enunciati dalla stessa Corte».

1.7.– Tanto premesso, il rimettente censura anzitutto l’art. 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, nella parte in cui prevede che l’Ufficio elettorale nazionale verifica «se la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il maggior numero di voti validi espressi abbia conseguito almeno 340 seggi» (comma 1, n. 5) e stabilisce che, in caso negativo, ad essa viene attribuito il numero di seggi necessario per raggiungere tale consistenza.

Tali disposizioni, non subordinando l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e, quindi, trasformando una maggioranza relativa di voti (potenzialmente anche molto modesta) in una maggioranza assoluta di seggi, determinerebbero irragionevolmente una oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica.

Esse, inoltre, delineerebbero un meccanismo premiale manifestamente irragionevole, il quale, da un lato, incentivando il raggiungimento di accordi tra le liste al fine di accedere al premio, si porrebbe in contraddizione con l’esigenza di assicurare la governabilità, stante la possibilità che, anche immediatamente dopo le elezioni, la coalizione beneficiaria del premio si sciolga o uno o più partiti che ne facevano parte ne escano; dall’altro, provocherebbe una alterazione degli equilibri istituzionali, tenuto conto che la maggioranza beneficiaria del premio sarebbe in grado di eleggere gli organi di garanzia che, tra l’altro, restano in carica per un tempo più lungo della legislatura.

La previsione dell’attribuzione del premio di maggioranza recata dalle predette disposizioni comprometterebbe poi l’eguaglianza del voto e cioè la «parità di condizione dei cittadini nel momento in cui il voto viene espresso», in violazione dell’art. 48, secondo comma, Cost., tenuto conto che la distorsione provocata dalla predetta attribuzione del premio costituirebbe non già un mero inconveniente di fatto, ma il risultato di un meccanismo irrazionale poiché normativamente programmato per tale esito.

1.8.– Analoghe censure sono, poi, rivolte all’art. 17, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui prevede che l’Ufficio elettorale regionale verifica «se la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il maggior numero di voti validi espressi nell’àmbito della circoscrizione abbia conseguito almeno il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, con arrotondamento all’unità superiore» (comma 2) e che, in caso negativo, «l’ufficio elettorale regionale assegna alla coalizione di liste o alla singola lista che abbia ottenuto il maggior numero di voti un numero di seggi ulteriore necessario per raggiungere il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, con arrotondamento all’unità superiore» (comma 4).

Anche le predette disposizioni, infatti, nella parte in cui non subordinano l’attribuzione del premio di maggioranza su scala regionale al raggiungimento di una soglia minima di voti, sarebbero tali da determinare una oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica.

Esse, inoltre, recherebbero un meccanismo intrinsecamente irrazionale, che di fatto finirebbe con contraddire lo scopo di assicurare la governabilità, in quanto, essendo il premio diverso per ogni Regione, il risultato sarebbe una sommatoria casuale dei premi regionali, che potrebbero finire per elidersi tra loro e addirittura rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti, pur in presenza di una distribuzione del voto sostanzialmente omogenea tra i due rami del Parlamento, e compromettendo sia il funzionamento della forma di governo parlamentare, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce alla Camera ed al Senato.

Un’ulteriore censura è, infine, prospettata con riferimento agli artt. 3 e 48, secondo comma, Cost., in quanto, posto che l’entità del premio, in favore della lista o coalizione che ha ottenuto più voti, varia da Regione a Regione ed è maggiore nelle Regioni più grandi e popolose, il peso del voto (che dovrebbe essere uguale e contare allo stesso modo ai fini della traduzione in seggi) sarebbe diverso a seconda della collocazione geografica dei cittadini elettori.

1.9.–Vengono, infine, censurati l’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957 e, in via consequenziale, l’art. 59, comma 1, del medesimo d.P.R., nonché l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui, rispettivamente, prevedono: l’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, che «Ogni elettore dispone di un voto per la scelta della lista ai fini dell’attribuzione dei seggi in ragione proporzionale, da esprimere su un’unica scheda recante il contrassegno di ciascuna lista»; l’art. 59 del medesimo d.P.R. n. 361, che «Una scheda valida per la scelta della lista rappresenta un voto di lista»; nonché l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, che «Il voto si esprime tracciando, con la matita, sulla scheda un solo segno, comunque apposto, sul rettangolo contenente il contrassegno della lista prescelta».

Tali disposizioni violerebbero gli artt. 56, primo comma, e 58, primo comma, Cost., che stabiliscono che il suffragio è «diretto» per l’elezione dei deputati e dei senatori; l’art. 48, secondo comma, Cost. che stabilisce che il voto è personale e libero; l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 3 del protocollo 1 della CEDU, che riconosce al popolo il diritto alla «scelta del corpo legislativo»; e l’art. 49 Cost. Esse, infatti, non consentendo all’elettore di esprimere alcuna preferenza, ma solo di scegliere una lista di partito, cui è rimessa la designazione dei candidati, renderebbero il voto sostanzialmente “indiretto”, posto che i partiti non possono sostituirsi al corpo elettorale e che l’art. 67 Cost. presuppone l’esistenza di un mandato conferito direttamente dagli elettori. Inoltre, sottraendo all’elettore la facoltà di scegliere l’eletto, farebbero sì che il voto non sia né libero, né personale.

2.– Nel giudizio innanzi alla Corte si sono costituiti i ricorrenti nel giudizio principale, i quali, nell’atto di costituzione e nella memoria depositata nell’imminenza dell’udienza pubblica, hanno chiesto che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale delle norme censurate con l’ordinanza di rimessione; nonché che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale, per relationem, anche dell’art. 83, commi 1, n. 3 e 6, del d.P.R. n. 361 del 1957 e dell’art. 16, comma 1, lettera b), n. 1 e n. 2, del d.lgs. n. 533 del 1993.

In particolare, con riguardo alle norme inerenti al premio di maggioranza, i ricorrenti ne sostengono l’irrazionalità, sulla scia di quanto già evidenziato dalla dottrina ed affermato dalla giurisprudenza costituzionale, in sede di sindacato di ammissibilità del referendum abrogativo (sentenze n. 15 e n. 16 del 2008 e n. 13 del 2012), proprio in relazione al fatto che le vigenti leggi elettorali attribuiscono un enorme premio di maggioranza alla lista che ha ottenuto anche un solo voto in più delle altre, senza prevedere il raggiungimento di una soglia minima di voti.

Quanto al voto di preferenza, i ricorrenti lamentano che l’esercizio di tale diritto sia stato illegittimamente soppresso dal legislatore del 2005, in contrasto con la Costituzione, che, all’art. 48, secondo comma, stabilisce che il voto è «personale ed eguale, libero e segreto» ed agli artt. 56, primo comma, e 58, primo comma, prevede che il voto deve avvenire «a suffragio universale e diretto», assicurando in tal modo che il voto sia espresso dalla persona che vota (elettorato attivo) e ricevuto direttamente dalla persona che si è candidata (elettorato passivo). Attribuendo rilevanza esclusiva all’ordine di inserimento dei candidati nella medesima lista, già deciso dagli organi di partito, ed eliminando ogni potere dell’elettore di incidere direttamente sulla composizione dell’Assemblea, la legge avrebbe trasformato le elezioni in un procedimento di mera ratifica dell’ordine di lista deciso dagli organi di partito, conferendo a costoro l’esclusivo potere non più di designazione di una serie di nomi da sottoporre singolarmente alla scelta diretta degli elettori, ma di nomina.

3.– All’udienza pubblica, le parti costituite nel giudizio hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte.

Considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale di alcune disposizioni del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati) e del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica), relative all’attribuzione del premio di maggioranza su scala nazionale alla Camera e su scala regionale al Senato, nonché di quelle disposizioni che, disciplinando le modalità di espressione del voto come voto di lista, non consentono all’elettore di esprimere alcuna preferenza.

1.1.– In particolare, la Corte di cassazione censura, anzitutto, l’art. 83 del d.P.R. n. 361 del 1957, nella parte in cui dispone che l’Ufficio elettorale nazionale verifica «se la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il maggior numero di voti validi espressi abbia conseguito almeno 340 seggi» (comma 1, n. 5) e stabilisce che, in caso negativo, «ad essa viene ulteriormente attribuito il numero di seggi necessario per raggiungere tale consistenza» (comma 2).

Tali disposizioni violerebbero l’art. 3 Cost., congiuntamente agli artt. 1, secondo comma, e 67 Cost., in quanto, non subordinando l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e, quindi, trasformando una maggioranza relativa di voti, potenzialmente anche molto modesta, in una maggioranza assoluta di seggi, determinerebbero irragionevolmente una oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica.

Esse, inoltre, avrebbero stabilito un meccanismo di attribuzione del premio manifestamente irragionevole, il quale, da un lato, sarebbe in contrasto con l’esigenza di assicurare la governabilità, in quanto incentiverebbe il raggiungimento di accordi tra le liste al solo fine di accedere al premio, senza scongiurare il rischio che, anche immediatamente dopo le elezioni, la coalizione beneficiaria del premio possa sciogliersi, o uno o più partiti che ne facevano parte escano dalla stessa. Dall’altro, provocherebbe un’alterazione degli equilibri istituzionali, tenuto conto che la maggioranza beneficiaria del premio sarebbe in grado di eleggere gli organi di garanzia che restano in carica per un tempo più lungo della legislatura.

Tale modalità di attribuzione del premio di maggioranza stabilita dalle predette disposizioni comprometterebbe, inoltre, l’eguaglianza del voto e cioè la parità di condizione dei cittadini nel momento in cui il voto viene espresso, in violazione dell’art. 48, secondo comma, Cost. La distorsione che ne risulta non costituirebbe, infatti, un mero inconveniente di fatto, ma sarebbe il risultato di un meccanismo irrazionale normativamente programmato per determinare tale esito.

1.2.– Analoghe censure sono rivolte all’art. 17 del d.lgs. n. 533 del 1993 (concernente la disciplina dell’elezione del Senato della Repubblica), nella parte in cui stabilisce che l’Ufficio elettorale regionale verifica «se la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il maggior numero di voti validi espressi nell’àmbito della circoscrizione abbia conseguito almeno il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, con arrotondamento all’unità superiore» (comma 2) e che, in caso negativo, «l’ufficio elettorale regionale assegna alla coalizione di liste o alla singola lista che abbia ottenuto il maggior numero di voti un numero di seggi ulteriore necessario per raggiungere il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, con arrotondamento all’unità superiore» (comma 4).

Anche tali disposizioni, nella parte in cui non subordinano l’attribuzione del premio di maggioranza su scala regionale al raggiungimento di una soglia minima di voti, determinerebbero, irragionevolmente, una oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica. Inoltre, avrebbero creato un meccanismo intrinsecamente irrazionale, in contrasto con lo scopo di assicurare la governabilità. Infatti, essendo detto premio diverso per ogni Regione, il risultato sarebbe una somma casuale dei premi regionali, che potrebbero finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto sostanzialmente omogenea, così da compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce alla Camera ed al Senato.

Le predette disposizioni violerebbero anche gli artt. 3 e 48, secondo comma, Cost., in quanto, posto che l’entità del premio, in favore della lista o coalizione che ha ottenuto più voti, varia da Regione a Regione ed è maggiore in quelle più grandi e popolose, il peso del voto – che dovrebbe essere uguale e contare allo stesso modo ai fini della traduzione in seggi – sarebbe diverso a seconda della collocazione geografica dei cittadini elettori.

1.3.– La Corte di cassazione censura, infine, l’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957 e, in via consequenziale, l’art. 59 del medesimo d.P.R., nonché l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui, rispettivamente, prevedono: l’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, che «Ogni elettore dispone di un voto per la scelta della lista ai fini dell’attribuzione dei seggi in ragione proporzionale, da esprimere su un’unica scheda recante il contrassegno di ciascuna lista»; l’art. 59 del medesimo d.P.R. n. 361, che «Una scheda valida per la scelta della lista rappresenta un voto di lista»; nonché l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, che «Il voto si esprime tracciando, con la matita, sulla scheda un solo segno, comunque apposto, sul rettangolo contenente il contrassegno della lista prescelta».

Tali disposizioni, ad avviso del rimettente, violerebbero gli artt. 56, primo comma, e 58, primo comma, Cost., i quali stabiliscono che il suffragio è diretto per l’elezione dei deputati e dei senatori; l’art. 48, secondo comma, Cost., in virtù del quale il voto è personale e libero; l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 del protocollo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), che riconosce al popolo il diritto alla «scelta del corpo legislativo»; e l’art. 49 Cost. Dette norme, non consentendo all’elettore di esprimere alcuna preferenza per i candidati, ma solo di scegliere una lista di partito, cui è rimessa la designazione di tutti i candidati, renderebbero, infatti, il voto sostanzialmente “indiretto”, posto che i partiti non potrebbero sostituirsi al corpo elettorale e che l’art. 67 Cost. presupporrebbe l’esistenza di un mandato conferito direttamente dagli elettori. Inoltre, sottraendo all’elettore la facoltà di scegliere l’eletto, farebbero sì che il voto non sia libero, né personale.

2.– In ordine all’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale in esame, va premesso che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, siffatto controllo ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) «va limitato all’adeguatezza delle motivazioni in ordine ai presupposti in base ai quali il giudizio a quo possa dirsi concretamente ed effettivamente instaurato, con un proprio oggetto, vale a dire un petitum, separato e distinto dalla questione di legittimità costituzionale, sul quale il giudice remittente sia chiamato a decidere» (tra le molte, sentenza n. 263 del 1994). Il riscontro dell’interesse ad agire e la verifica della legittimazione delle parti, nonché della giurisdizione del giudice rimettente, ai fini dell’apprezzamento della rilevanza dell’incidente di legittimità costituzionale, sono, inoltre, rimessi alla valutazione del giudice a quo e non sono suscettibili di riesame da parte di questa Corte, qualora sorretti da una motivazione non implausibile (fra le più recenti, sentenze n. 91 del 2013, n. 280 del 2012, n. 279 del 2012, n. 61 del 2012, n. 270 del 2010).

Nella specie, la Corte di cassazione, con motivazione ampia, articolata ed approfondita, ha plausibilmente argomentato in ordine sia alla pregiudizialità delle questioni di legittimità costituzionale rispetto alla definizione del giudizio principale, sia alla rilevanza delle medesime.

Essa ha affermato che nel giudizio principale è stata proposta un’azione di accertamento avente ad oggetto il diritto di voto, finalizzata – come tutte le azioni di tale natura, la cui generale ammissibilità è desunta dal principio dell’interesse ad agire – ad accertare la portata del diritto, ritenuta incerta. L’esistenza di detto interesse e della giurisdizione – ha sottolineato l’ordinanza – costituisce, peraltro, oggetto di un giudicato interno. La sussistenza dell’uno e dell’altra è stata, infatti, contestata dalle Amministrazioni nella fase di merito, con eccezione rigettata dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Milano, e non è stata reiterata dinanzi alla Corte di cassazione mediante la proposizione di ricorso incidentale, con la conseguenza che deve ritenersi definitivamente precluso il riesame di tale profilo.

Il rimettente, con argomentazioni plausibili, ha altresì sottolineato, in ordine alla natura ed oggetto dell’azione, che gli attori hanno agito allo scopo «di rimuovere un pregiudizio», frutto di «una (già avvenuta) modificazione della realtà giuridica che postula di essere rimossa mediante un’attività ulteriore, giuridica e materiale, che consenta ai cittadini elettori di esercitare realmente il diritto di voto in modo pieno e in sintonia con i valori costituzionali». A suo avviso, gli attori hanno, quindi, chiesto al giudice ordinario – in qualità di giudice dei diritti – di accertare la portata del proprio diritto di voto, resa incerta da una normativa elettorale in ipotesi incostituzionale, previa l’eventuale proposizione della relativa questione. Pertanto, l’eventuale accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale non esaurirebbe la tutela richiesta nel giudizio principale, che si realizzerebbe solo a seguito ed in virtù della pronuncia con la quale il giudice ordinario accerta il contenuto del diritto dell’attore, all’esito della sentenza di questa Corte.

Al riguardo, in ordine ai presupposti della rilevanza della questione di legittimità costituzionale, va ricordato che, secondo un principio enunciato da questa Corte fin dalle sue prime pronunce, «la circostanza che la dedotta incostituzionalità di una o più norme legislative costituisca l’unico motivo di ricorso innanzi al giudice a quo non impedisce di considerare sussistente il requisito della rilevanza, ogni qualvolta sia individuabile nel giudizio principale un petitum separato e distinto dalla questione (o dalle questioni) di legittimità costituzionale, sul quale il giudice rimettente sia chiamato a pronunciarsi» (sentenza n. 4 del 2000; ma analoga affermazione era già contenuta nella sentenza n. 59 del 1957), anche allo scopo di scongiurare «la esclusione di ogni garanzia e di ogni controllo» su taluni atti legislativi (nella specie le leggi-provvedimento: sentenza n. 59 del 1957).

Nel caso in esame, tale condizione è soddisfatta, perchè il petitum oggetto del giudizio principale è costituito dalla pronuncia di accertamento del diritto azionato, in ipotesi condizionata dalla decisione delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, non risultando l’accertamento richiesto al giudice comune totalmente assorbito dalla sentenza di questa Corte, in quanto residuerebbe la verifica delle altre condizioni cui la legge fa dipendere il riconoscimento del diritto di voto. Per di più, nella fattispecie qui in esame, la questione ha ad oggetto un diritto fondamentale tutelato dalla Costituzione, il diritto di voto, che ha come connotato essenziale il collegamento ad un interesse del corpo sociale nel suo insieme, ed è proposta allo scopo di porre fine ad una situazione di incertezza sulla effettiva portata del predetto diritto determinata proprio da «una (già avvenuta) modificazione della realtà giuridica», in ipotesi frutto delle norme censurate.

L’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate nel corso di tale giudizio si desume precisamente dalla peculiarità e dal rilievo costituzionale, da un lato, del diritto oggetto di accertamento; dall’altro, della legge che, per il sospetto di illegittimità costituzionale, ne rende incerta la portata. Detta ammissibilità costituisce anche l’ineludibile corollario del principio che impone di assicurare la tutela del diritto inviolabile di voto, pregiudicato – secondo l’ordinanza del giudice rimettente – da una normativa elettorale non conforme ai principi costituzionali, indipendentemente da atti applicativi della stessa, in quanto già l’incertezza sulla portata del diritto costituisce una lesione giuridicamente rilevante. L’esigenza di garantire il principio di costituzionalità rende quindi imprescindibile affermare il sindacato di questa Corte – che «deve coprire nella misura più ampia possibile l’ordinamento giuridico» (sentenza n. 387 del 1996) – anche sulle leggi, come quelle relative alle elezioni della Camera e del Senato, «che più difficilmente verrebbero per altra via ad essa sottoposte» (sentenze n. 384 del 1991 e n. 226 del 1976).

Nel quadro di tali principi, le sollevate questioni di legittimità costituzionale sono ammissibili, anche in linea con l’esigenza che non siano sottratte al sindacato di costituzionalità le leggi, quali quelle concernenti le elezioni della Camera e del Senato, che definiscono le regole della composizione di organi costituzionali essenziali per il funzionamento di un sistema democratico-rappresentativo e che quindi non possono essere immuni da quel sindacato. Diversamente, si finirebbe con il creare una zona franca nel sistema di giustizia costituzionale proprio in un ambito strettamente connesso con l’assetto democratico, in quanto incide sul diritto fondamentale di voto; per ciò stesso, si determinerebbe un vulnus intollerabile per l’ordinamento costituzionale complessivamente considerato.

3.– Nel merito, la prima delle questioni in esame riguarda il premio di maggioranza assegnato per la elezione della Camera dei deputati. L’art. 83 del d.P.R. n. 361 del 1957 prevede che l’Ufficio elettorale nazionale verifichi «se la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il maggior numero di voti validi espressi abbia conseguito almeno 340 seggi» (comma 1, n. 5), sulla base dall’attribuzione di seggi in ragione proporzionale; e stabilisce, in caso negativo, che ad essa venga attribuito il numero di seggi necessario per raggiungere quella consistenza (comma 2).

Secondo la Corte di cassazione, tali disposizioni, non subordinando l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e, quindi, trasformando una maggioranza relativa di voti, potenzialmente anche molto modesta, in una maggioranza assoluta di seggi, avrebbero stabilito, in violazione dell’art. 3 Cost., un meccanismo di attribuzione del premio manifestamente irragionevole, tale da determinare una oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica, lesiva della stessa eguaglianza del voto, peraltro neppure idonea ad assicurare la stabilità di governo.

3.1.– La questione è fondata.

[QUI LA CORTE CI SPIEGA L’ILLEGITTIMITA’ DEL PREMIO DI MAGGIORANZA]

Questa Corte ha da tempo ricordato che l’Assemblea Costituente, «pur manifestando, con l’approvazione di un ordine del giorno, il favore per il sistema proporzionale nell’elezione dei membri della Camera dei deputati, non intese irrigidire questa materia sul piano normativo, costituzionalizzando una scelta proporzionalistica o disponendo formalmente in ordine ai sistemi elettorali, la configurazione dei quali resta affidata alla legge ordinaria» (sentenza n. 429 del 1995). Pertanto, la «determinazione delle formule e dei sistemi elettorali costituisce un ambito nel quale si esprime con un massimo di evidenza la politicità della scelta legislativa» (sentenza n. 242 del 2012; ordinanza n. 260 del 2002; sentenza n. 107 del 1996). Il principio costituzionale di eguaglianza del voto – ha inoltre rilevato questa Corte – esige che l’esercizio dell’elettorato attivo avvenga in condizione di parità, in quanto «ciascun voto contribuisce potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi» (sentenza n. 43 del 1961), ma «non si estende […] al risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore […] che dipende […] esclusivamente dal sistema che il legislatore ordinario, non avendo la Costituzione disposto al riguardo, ha adottato per le elezioni politiche e amministrative, in relazione alle mutevoli esigenze che si ricollegano alle consultazioni popolari» (sentenza n. 43 del 1961).

Non c’è, in altri termini, un modello di sistema elettorale imposto dalla Carta costituzionale, in quanto quest’ultima lascia alla discrezionalità del legislatore la scelta del sistema che ritenga più idoneo ed efficace in considerazione del contesto storico.

Il sistema elettorale, tuttavia, pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa, non è esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di costituzionalità quando risulti manifestamente irragionevole (sentenze n. 242 del 2012 e n. 107 del 1996; ordinanza n. 260 del 2002).

Nella specie, proprio con riguardo alle norme della legge elettorale della Camera qui in esame, relative all’attribuzione del premio di maggioranza in difetto del presupposto di una soglia minima di voti o di seggi, questa Corte, pur negando la possibilità di sindacare in sede di giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo profili di illegittimità costituzionale, in particolare attinenti alla ragionevolezza delle predette norme, ha già segnalato l’esigenza che il Parlamento consideri con attenzione alcuni profili di un simile meccanismo. Alcuni aspetti problematici sono stati ravvisati nella circostanza che il meccanismo premiale è foriero di una eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa, in quanto consente ad una lista che abbia ottenuto un numero di voti anche relativamente esiguo di acquisire la maggioranza assoluta dei seggi. In tal modo si può verificare in concreto una distorsione fra voti espressi ed attribuzione di seggi che, pur essendo presente in qualsiasi sistema elettorale, nella specie assume una misura tale da comprometterne la compatibilità con il principio di eguaglianza del voto (sentenze n. 15 e n. 16 del 2008). Successivamente, questa Corte, stante l’inerzia del legislatore, ha rinnovato l’invito al Parlamento a considerare con attenzione i punti problematici della disciplina, così come risultante dalle modifiche introdotte con la legge n. 270 del 2005, ed ha nuovamente sottolineato i profili di irrazionalità segnalati nelle precedenti occasioni sopra ricordate, insiti nell’«attribuzione dei premi di maggioranza senza la previsione di alcuna soglia minima di voti e/o di seggi» (sentenza n. 13 del 2012); profili ritenuti, tuttavia, insindacabili in una sede diversa dal giudizio di legittimità costituzionale.

Gli stessi rilievi, nella perdurante inerzia del legislatore ordinario, non possono che essere ribaditi e, conseguentemente, devono ritenersi fondate le censure concernenti l’art. 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957. Tali disposizioni, infatti, non superano lo scrutinio di proporzionalità e di ragionevolezza, al quale soggiacciono anche le norme inerenti ai sistemi elettorali.

In ambiti connotati da un’ampia discrezionalità legislativa, quale quello in esame, siffatto scrutinio impone a questa Corte di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130 del 1988). Il test di proporzionalità utilizzato da questa Corte come da molte delle giurisdizioni costituzionali europee, spesso insieme con quello di ragionevolezza, ed essenziale strumento della Corte di giustizia dell’Unione europea per il controllo giurisdizionale di legittimità degli atti dell’Unione e degli Stati membri, richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi.

Nella specie, le suddette condizioni non sono soddisfatte.

Le disposizioni censurate sono dirette ad agevolare la formazione di una adeguata maggioranza parlamentare, allo scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale, ciò che costituisce senz’altro un obiettivo costituzionalmente legittimo. Questo obiettivo è perseguito mediante un meccanismo premiale destinato ad essere attivato ogniqualvolta la votazione con il sistema proporzionale non abbia assicurato ad alcuna lista o coalizione di liste un numero di voti tale da tradursi in una maggioranza anche superiore a quella assoluta di seggi (340 su 630). Se dunque si verifica tale eventualità, il meccanismo premiale garantisce l’attribuzione di seggi aggiuntivi (fino alla soglia dei 340 seggi) a quella lista o coalizione di liste che abbia ottenuto anche un solo voto in più delle altre, e ciò pure nel caso che il numero di voti sia in assoluto molto esiguo, in difetto della previsione di una soglia minima di voti e/o di seggi.

Le disposizioni censurate non si limitano, tuttavia, ad introdurre un correttivo (ulteriore rispetto a quello già costituito dalla previsione di soglie di sbarramento all’accesso, di cui al n. 3 ed al n. 6 del medesimo comma 1 del citato art. 83, qui non censurati) al sistema di trasformazione dei voti in seggi «in ragione proporzionale», stabilito dall’art. 1, comma 2, del medesimo d.P.R. n. 361 del 1957, in vista del legittimo obiettivo di favorire la formazione di stabili maggioranze parlamentari e quindi di stabili governi, ma rovesciano la ratio della formula elettorale prescelta dallo stesso legislatore del 2005, che è quella di assicurare la rappresentatività dell’assemblea parlamentare. In tal modo, dette norme producono una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare, secondo l’art. 1, secondo comma, Cost.

In altri termini, le disposizioni in esame non impongono il raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista (o coalizione di liste) di maggioranza relativa dei voti; e ad essa assegnano automaticamente un numero anche molto elevato di seggi, tale da trasformare, in ipotesi, una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea. Risulta, pertanto, palese che in tal modo esse consentono una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della «rappresentanza politica nazionale» (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare, ed in virtù di ciò ad esse sono affidate funzioni fondamentali, dotate di «una caratterizzazione tipica ed infungibile» (sentenza n. 106 del 2002), fra le quali vi sono, accanto a quelle di indirizzo e controllo del governo, anche le delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art. 138 Cost.): ciò che peraltro distingue il Parlamento da altre assemblee rappresentative di enti territoriali.

Il meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza prefigurato dalle norme censurate, inserite nel sistema proporzionale introdotto con la legge n. 270 del 2005, in quanto combinato con l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima per competere all’assegnazione del premio, è pertanto tale da determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.). Esso, infatti, pur non vincolando il legislatore ordinario alla scelta di un determinato sistema, esige comunque che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi (sentenza n. 43 del 1961) ed assume sfumature diverse in funzione del sistema elettorale prescelto. In ordinamenti costituzionali omogenei a quello italiano, nei quali pure è contemplato detto principio e non è costituzionalizzata la formula elettorale, il giudice costituzionale ha espressamente riconosciuto, da tempo, che, qualora il legislatore adotti il sistema proporzionale, anche solo in modo parziale, esso genera nell’elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita”, ai fini dell’attribuzione dei seggi, che non sia necessaria ad evitare un pregiudizio per la funzionalità dell’organo parlamentare (BVerfGE, sentenza 3/11 del 25 luglio 2012; ma v. già la sentenza n. 197 del 22 maggio 1979 e la sentenza n. 1 del 5 aprile 1952).

Le norme censurate, pur perseguendo un obiettivo di rilievo costituzionale, qual è quello della stabilità del governo del Paese e dell’efficienza dei processi decisionali nell’ambito parlamentare, dettano una disciplina che non rispetta il vincolo del minor sacrificio possibile degli altri interessi e valori costituzionalmente protetti, ponendosi in contrasto con gli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost. In definitiva, detta disciplina non è proporzionata rispetto all’obiettivo perseguito, posto che determina una compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea, nonché dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente.

Deve, quindi, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957.

4.– Le medesime argomentazioni vanno svolte anche in relazione alle censure sollevate, in relazione agli stessi parametri costituzionali, nei confronti dell’art. 17, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 533 del 1993, che disciplina il premio di maggioranza per le elezioni del Senato della Repubblica, prevedendo che l’Ufficio elettorale regionale, qualora la coalizione di liste o la singola lista, che abbiano ottenuto il maggior numero di voti validi espressi nell’àmbito della circoscrizione, non abbiano conseguito almeno il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, assegni alle medesime un numero di seggi ulteriore necessario per raggiungere il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione.

Anche queste norme, nell’attribuire in siffatto modo il premio della maggioranza assoluta, in ambito regionale, alla lista (o coalizione di liste) che abbia ottenuto semplicemente un numero maggiore di voti rispetto alle altre liste, in difetto del raggiungimento di una soglia minima, contengono una disciplina manifestamente irragionevole, che comprime la rappresentatività dell’assemblea parlamentare, attraverso la quale si esprime la sovranità popolare, in misura sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito (garantire la stabilità di governo e l’efficienza decisionale del sistema), incidendo anche sull’eguaglianza del voto, in violazione degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost.

Nella specie, il test di proporzionalità evidenzia, oltre al difetto di proporzionalità in senso stretto della disciplina censurata, anche l’inidoneità della stessa al raggiungimento dell’obiettivo perseguito, in modo più netto rispetto alla disciplina prevista per l’elezione della Camera dei deputati. Essa, infatti, stabilendo che l’attribuzione del premio di maggioranza è su scala regionale, produce l’effetto che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea. Ciò rischia di compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce collettivamente alla Camera ed al Senato. In definitiva, rischia di vanificare il risultato che si intende conseguire con un’adeguata stabilità della maggioranza parlamentare e del governo. E benché tali profili costituiscano, in larga misura, l’oggetto di scelte politiche riservate al legislatore ordinario, questa Corte ha tuttavia il dovere di verificare se la disciplina legislativa violi manifestamente, come nella specie, i principi di proporzionalità e ragionevolezza e, pertanto, sia lesiva degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost.

Deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 533 del 1993.

[SULLE CD. LISTE BLOCCATE]

5.– Occorre, infine, esaminare le censure relative all’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957 e, in via consequenziale, all’art. 59, comma 1, del medesimo d.P.R., nonché all’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui, rispettivamente, prevedono: l’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, che «Ogni elettore dispone di un voto per la scelta della lista ai fini dell’attribuzione dei seggi in ragione proporzionale, da esprimere su un’unica scheda recante il contrassegno di ciascuna lista»; l’art. 59 del medesimo d.P.R. n. 361, che «Una scheda valida per la scelta della lista rappresenta un voto di lista»; nonché l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, che «Il voto si esprime tracciando, con la matita, sulla scheda un solo segno, comunque apposto, sul rettangolo contenente il contrassegno della lista prescelta».

Secondo il rimettente, tali disposizioni, non consentendo all’elettore di esprimere alcuna preferenza, ma solo di scegliere una lista di partito, cui è rimessa la designazione e la collocazione in lista di tutti i candidati, renderebbero il voto sostanzialmente “indiretto”, posto che i partiti non possono sostituirsi al corpo elettorale e che l’art. 67 Cost. presuppone l’esistenza di un mandato conferito direttamente dagli elettori. Ciò violerebbe gli artt. 56, primo comma, e 58, primo comma, Cost., l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 del protocollo 1 della CEDU, che riconosce al popolo il diritto alla “scelta del corpo legislativo”, e l’art. 49 Cost. Inoltre, sottraendo all’elettore la facoltà di scegliere l’eletto, farebbero sì che il voto non sia né libero, né personale, in violazione dell’art. 48, secondo comma, Cost.

5.1.– La questione è fondata nei termini di seguito precisati.

Le norme censurate, concernenti le modalità di espressione del voto per l’elezione dei componenti, rispettivamente, della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, si inseriscono in un contesto normativo in base al quale tale voto avviene per liste concorrenti di candidati (art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957; art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 533 del 1993), presentati «secondo un determinato ordine», in numero «non inferiore a un terzo e non superiore ai seggi assegnati alla circoscrizione» (art. 18-bis, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957 ed art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 533 del 1993). Le circoscrizioni elettorali, la cui disciplina non è investita dalle censure qui esaminate, corrispondono sempre, per il Senato, ai territori delle Regioni (art. 2 del d.lgs. n. 533 del 1993); per la Camera dei deputati (Allegato A alla legge n. 270 del 2005), le circoscrizioni corrispondono ai territori regionali, con l’eccezione delle Regioni di maggiori dimensioni, nelle quali sono presenti due circoscrizioni (Piemonte, Veneto, Lazio, Campania e Sicilia) o tre (Lombardia).

La ripartizione dei seggi tra le liste concorrenti è, inoltre, effettuata in ragione proporzionale, con l’eventuale attribuzione del premio di maggioranza (art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957), che è definito, per il Senato, «di coalizione regionale» (art. 1, comma 2, d.lgs. n. 533 del 1993); e sono proclamati «eletti, nei limiti dei seggi ai quali ciascuna lista ha diritto, i candidati compresi nella lista medesima, secondo l’ordine di presentazione» nella lista (art. 84, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957 ed art. 17, comma 7, del d.lgs. n. 533 del 1993).

In questo quadro, le disposizioni censurate, nello stabilire che il voto espresso dall’elettore, destinato a determinare per intero la composizione della Camera e del Senato, è un voto per la scelta della lista, escludono ogni facoltà dell’elettore di incidere sull’elezione dei propri rappresentanti, la quale dipende, oltre che, ovviamente, dal numero dei seggi ottenuti dalla lista di appartenenza, dall’ordine di presentazione dei candidati nella stessa, ordine di presentazione che è sostanzialmente deciso dai partiti. La scelta dell’elettore, in altri termini, si traduce in un voto di preferenza esclusivamente per la lista, che – in quanto presentata in circoscrizioni elettorali molto ampie, come si è rilevato – contiene un numero assai elevato di candidati, che può corrispondere all’intero numero dei seggi assegnati alla circoscrizione, e li rende, di conseguenza, difficilmente conoscibili dall’elettore stesso.

Una simile disciplina priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti, scelta che è totalmente rimessa ai partiti. A tal proposito, questa Corte ha chiarito che «le funzioni attribuite ai partiti politici dalla legge ordinaria al fine di eleggere le assemblee – quali la “presentazione di alternative elettorali” e la “selezione dei candidati alle cariche elettive pubbliche” – non consentono di desumere l’esistenza di attribuzioni costituzionali, ma costituiscono il modo in cui il legislatore ordinario ha ritenuto di raccordare il diritto, costituzionalmente riconosciuto ai cittadini, di associarsi in una pluralità di partiti con la rappresentanza politica, necessaria per concorrere nell’ambito del procedimento elettorale, e trovano solo un fondamento nello stesso art. 49 Cost.» (ordinanza n. 79 del 2006). Simili funzioni devono, quindi, essere preordinate ad agevolare la partecipazione alla vita politica dei cittadini ed alla realizzazione di linee programmatiche che le formazioni politiche sottopongono al corpo elettorale, al fine di consentire una scelta più chiara e consapevole anche in riferimento ai candidati.

Sulla base di analoghi argomenti, questa Corte si è già espressa, sia pure con riferimento al sistema elettorale vigente nel 1975 per i Comuni al di sotto dei 5.000 abitanti, contraddistinto anche esso dalla ripartizione dei seggi in ragione proporzionale fra liste concorrenti di candidati. In quella occasione, la Corte ha affermato che la circostanza che il legislatore abbia lasciato ai partiti il compito di indicare l’ordine di presentazione delle candidature non lede in alcun modo la libertà di voto del cittadino: a condizione che quest’ultimo sia «pur sempre libero e garantito nella sua manifestazione di volontà, sia nella scelta del raggruppamento che concorre alle elezioni, sia nel votare questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di preferenza» (sentenza n. 203 del 1975).

Nella specie, tale libertà risulta compromessa, posto che il cittadino è chiamato a determinare l’elezione di tutti i deputati e di tutti senatori, votando un elenco spesso assai lungo (nelle circoscrizioni più popolose) di candidati, che difficilmente conosce. Questi, invero, sono individuati sulla base di scelte operate dai partiti, che si riflettono nell’ordine di presentazione, sì che anche l’aspettativa relativa all’elezione in riferimento allo stesso ordine di lista può essere delusa, tenuto conto della possibilità di candidature multiple e della facoltà dell’eletto di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito.

In definitiva, è la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione. Simili condizioni di voto, che impongono al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori, rendono la disciplina in esame non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali).

Le condizioni stabilite dalle norme censurate sono, viceversa, tali da alterare per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti. Anzi, impedendo che esso si costituisca correttamente e direttamente, coartano la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare, e pertanto contraddicono il principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto di cui all’art. 48 Cost. (sentenza n. 16 del 1978).

Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, e 59 del d.P.R. n. 361 del 1957, nonché dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza per i candidati, al fine di determinarne l’elezione.

Resta, pertanto, assorbita la questione proposta in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 del protocollo 1 della CEDU. Peraltro, nessun rilievo assume la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 13 marzo 2012 (caso Saccomanno e altri contro Italia), resa a seguito di un ricorso proposto da alcuni cittadini italiani che deducevano la pretesa violazione di quel parametro precisamente dalle norme elettorali qui in esame, sentenza che ha dichiarato tutti i motivi di ricorso manifestamente infondati, sul presupposto dell’«ampio margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati in materia» (paragrafo 64). Spetta, in definitiva, a questa Corte di verificare la compatibilità delle norme in questione con la Costituzione.

[QUI LA CORTE CI SPIEGA CON QUALE LEGGE SI ANDREBBE A VOTARE ALO STATO ATTUALE]

6.– La normativa che resta in vigore per effetto della dichiarata illegittimità costituzionale delle disposizioni oggetto delle questioni sollevate dalla Corte di cassazione è «complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo», così come richiesto dalla costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, sentenza n. 13 del 2012). Le leggi elettorali sono, infatti, “costituzionalmente necessarie”, in quanto «indispensabili per assicurare il funzionamento e la continuità degli organi costituzionali» (sentenza n. 13 del 2012; analogamente, sentenze n. 15 e n. 16 del 2008, n. 13 del 1999, n. 26 del 1997, n. 5 del 1995, n. 32 del 1993, n. 47 del 1991, n. 29 del 1987), dovendosi inoltre scongiurare l’eventualità di «paralizzare il potere di scioglimento del Presidente della Repubblica previsto dall’art. 88 Cost.» (sentenza n. 13 del 2012).

In particolare, la normativa che rimane in vigore stabilisce un meccanismo di trasformazione dei voti in seggi che consente l’attribuzione di tutti i seggi, in relazione a circoscrizioni elettorali che rimangono immutate, sia per la Camera che per il Senato. Ciò che resta, invero, è precisamente il meccanismo in ragione proporzionale delineato dall’art. 1 del d.P.R. n. 361 del 1957 e dall’art. 1 del d.lgs. n. 533 del 1993, depurato dell’attribuzione del premio di maggioranza; e le norme censurate riguardanti l’espressione del voto risultano integrate in modo da consentire un voto di preferenza. Non rientra tra i compiti di questa Corte valutare l’opportunità e/o l’efficacia di tale meccanismo, spettando ad essa solo di verificare la conformità alla Costituzione delle specifiche norme censurate e la possibilità immediata di procedere ad elezioni con la restante normativa, condizione, quest’ultima, connessa alla natura della legge elettorale di «legge costituzionalmente necessaria» (sentenza n. 32 del 1993). D’altra parte, la rimettente Corte di cassazione aveva significativamente puntualizzato che «la proposta questione di legittimità costituzionale non mira a far caducare l’intera legge n. 270/2005 né a sostituirla con un’altra eterogenea impingendo nella discrezionalità del legislatore, ma a ripristinare nella legge elettorale contenuti costituzionalmente obbligati (concernenti la disciplina del premio di maggioranza e delle preferenze), senza compromettere la permanente idoneità del sistema elettorale a garantire il rinnovo degli organi costituzionali», fatta salva «l’eventualità che si renda necessaria un’opera di mera cosmesi normativa e di ripulitura del testo per la presenza di frammenti normativi residui, che può essere realizzata dalla Corte costituzionale, avvalendosi dei poteri che ha a disposizione».

La presente decisione non può andare al di là di quanto ipotizzato e richiesto dal giudice rimettente.

Per quanto riguarda la possibilità per l’elettore di esprimere un voto di preferenza, eventuali apparenti inconvenienti, che comunque «non incidono sull’operatività del sistema elettorale, né paralizzano la funzionalità dell’organo» (sentenza n. 32 del 1993), possono essere risolti mediante l’impiego degli ordinari criteri d’interpretazione, alla luce di una rilettura delle norme già vigenti coerente con la pronuncia di questa Corte: come, ad esempio, con riferimento alle previsioni, di cui agli artt. 84, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, e 17, comma 7, del d.lgs. n. 533 del 1993, che, nella parte in cui stabiliscono che sono proclamati eletti, nei limiti dei seggi ai quali ciascuna lista ha diritto, i candidati compresi nella lista medesima «secondo l’ordine di presentazione», non appaiono incompatibili con l’introduzione del voto di preferenza, dovendosi ritenere l’ordine di lista operante solo in assenza di espressione della preferenza; o, ancora, con riguardo alle modalità di redazione delle schede elettorali di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 361 del 1957 ed all’art. 11, comma 3, del d.lgs n. 533 del 1993, che, nello stabilire che nella scheda devono essere riprodotti i contrassegni di tutte le liste regolarmente presentate nella circoscrizione, secondo il fac-simile di cui agli allegati, non escludono che quegli schemi siano integrati da uno spazio per l’espressione della preferenza; o, quanto alla possibilità di intendere l’espressione della preferenza come preferenza unica, in linea con quanto risultante dal referendum del 1991, ammesso con sentenza n. 47 del 1991, in relazione alle formule elettorali proporzionali. Simili eventuali inconvenienti potranno, d’altro canto, essere rimossi anche mediante interventi normativi secondari, meramente tecnici ed applicativi della presente pronuncia e delle soluzioni interpretative sopra indicate. Resta fermo ovviamente, che lo stesso legislatore ordinario, ove lo ritenga, «potrà correggere, modificare o integrare la disciplina residua» (sentenza n. 32 del 1993).

7.– È evidente, infine, che la decisione che si assume, di annullamento delle norme censurate, avendo modificato in parte qua la normativa che disciplina le elezioni per la Camera e per il Senato, produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale, consultazione che si dovrà effettuare o secondo le regole contenute nella normativa che resta in vigore a seguito della presente decisione, ovvero secondo la nuova normativa elettorale eventualmente adottata dalle Camere.

Essa, pertanto, non tocca in alcun modo gli atti posti in essere in conseguenza di quanto stabilito durante il vigore delle norme annullate, compresi gli esiti delle elezioni svoltesi e gli atti adottati dal Parlamento eletto. Vale appena ricordare che il principio secondo il quale gli effetti delle sentenze di accoglimento di questa Corte, alla stregua dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953, risalgono fino al momento di entrata in vigore della norma annullata, principio «che suole essere enunciato con il ricorso alla formula della c.d. “retroattività” di dette sentenze, vale però soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida» (sentenza n. 139 del 1984).

Le elezioni che si sono svolte in applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente illegittime costituiscono, in definitiva, e con ogni evidenza, un fatto concluso, posto che il processo di composizione delle Camere si compie con la proclamazione degli eletti.

Del pari, non sono riguardati gli atti che le Camere adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali.

Rileva nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento. È pertanto fuori di ogni ragionevole dubbio – è appena il caso di ribadirlo – che nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare. Tanto ciò è vero che, proprio al fine di assicurare la continuità dello Stato, è la stessa Costituzione a prevedere, ad esempio, a seguito delle elezioni, la prorogatio dei poteri delle Camere precedenti «finchè non siano riunite le nuove Camere» (art. 61 Cost.), come anche a prescrivere che le Camere, «anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni» per la conversione in legge di decreti-legge adottati dal Governo (art. 77, secondo comma, Cost.).

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.P.R. 30 marzo 1957 n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati);

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, commi 2 e 4, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica);

3) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, e 59 del d.P.R. n. 361 del 1957, nonché dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza per i candidati.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 dicembre 2013.

F.to: Gaetano SILVESTRI, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 gennaio 2014.

La politica che forma la classe dirigente del paese

razziEcco come si selezione la classe dirigente nel nostro paese. E’ l’origine dei nostri mali e non riguarda solo forza italia ma tutti i partiti. Occorre riprendersi il governo del futuro iniziando da qui. Questo è il risultato della fine delle ideologie che rende la politica un semplice coacervo di interessi personali che sfocia nel se fai i miei interessi sei mio amico se non li fai sei mio nemico. Per questo nascono i razzi e gli scilipoti in parlamento, gente priva di ogni idea incentrati nel solo loro interesse personale. E’ la politica “razziana” del “fatti li cazzi tua!!” ma annate a ….:

I giovani falchetti di forza italia clikka

 La selezione dei giovani falchetti di forza italia clikka

i giovani che scappano (clikka)

Restano i mediocri e si fa avanti questa gente:

Ognuno deve fare la sua parte

boccassiniL’argomento è sempre attuale e delicato e sul punto ho già scritto un post (magistrati e politica clikka) ma credo che sia sempre bene leggere il pensiero di coloro che riflettono profondamente sull’argomento stando in prima linea. E’ chiaro che in questi anni il potere giurisdizionale sta svolgendo un ruolo di supplente al sistema paese che non ha una classe politica degna di questo nome. Ciò è dimostrato dal fatto che è altamente probabile che sulla legge elettorale se non interviene la Consulta i politici non interveranno mai! Occorre pertanto riflettere come cittadini affinché si sappia scegliere in tutta coscienza quando sarà il momento valutando caso per caso, persona per persona.
Da Repubblica Nazionale del 14.09.2013
Boccassini chiede un’autocritica alle toghe “Certi pm usano la giustizia per altri scopi”
MILANO — Dibattito affollato per un libro contro-corrente. E con un’Ilda Boccassini che fa salutare con un applauso l’ex collega Gherardo Colombo, nascosto tra il pubblico, ma ripete, con qualche elaborazione in più quel concetto che, appena dopo la strage in cui morì Giovanni Falcone, li divise. E divise la magistratura: «Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent’anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un’autocritica o una riflessione». Perché, aveva detto poco prima, «si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro» per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica.
Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al «consenso sociale», cosa sbagliatissima, una «patologia», sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. «Io — racconta Boccassini, che dopo trent’anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda — durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel “bunkerizzati”, con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, “Forza mani pulite”».E non le piaceva, anzi «ho provato una cosa terribile» quando la folla scandiva i nomi dei magi-strati, perché a muoverli «non dev’essere l’approvazione».
E’ stato presentato ieri a Milano «L’onere della Toga», di Lionello Mancini (Bur, 11 euro). Un libro che racconta, con molte virgolette, ma anche con le riflessioni dell’autore, la vita di cinque pubblici ministeri normali, tenendo però sullo sfondo alcune domande sulla giustizia e sulle sue disfunzioni. E anche di questo, presentati da Ferruccio De Bortoli, hanno parlato i due magistrati. Silvio Berlusconi è stato citato en passant, ma dello «scontro tra mass media, magistratura e politica» s’è parlato. Anzi sarebbe stata questa «conflittualità talmente alta» a impedire la «riflessione» nella magistratura che il procuratore aggiunto antimafia di Milano definisce «un corpo sano» in un paese a basso tasso di legalità: «Sì, in Lombardia abbiamo molti incendi dolosi, e nessuna vittima fa denuncia, o dice di aver avuto minacce. Quando scopriamo imprenditori che hanno negato l’evidenza, chiediamo l’arresto per favoreggiamento aggravato, perché o si sta con lo Stato o no. E in più, il vittimismo di alcuni nasconde un do ut des, anche l’imprenditore lombardo si fa aiutare dal criminale e ne trae vantaggi ».
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione,ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un’altra: «Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo», perché i magistrati dell’accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, «quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura». Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è «equilibrio», sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia «per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono». Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della ‘ndrangheta. Sono entrambi — e lo dicono — in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la «nausea» comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, «se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare», dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

Il potere di sperare dell’uomo autentico

vito mancusoTraggo queste riflessioni da “La Vita Autentica” di Vito Mancuso che potrebbero portare ad una lunga e stimolante discussione sull’uomo che l’autore chiama “autentico”:

“La speranza ha a che fare con una dimensione dell’essere umano, dove l’intelletto e la volontà si uniscono dando origine a qualcosa di superiore che da’ il sapore complessivo alla personalità. Un vero uomo è tale non in base a ciò che ha, non in base a ciò che sa, neppure in base a ciò che fa, ma in base a ciò che è; ma ciò che un uomo è, in quanto essere individuale irripetibile, è sì il suo corpo fisico, è sì la sua professione, ma è ancor di più la speranza, cioè la tensione complessiva della sua vita e il sapore di fondo che ne deriva all’intera personalità, la musica che fuoriesce quando lui si presenta e che gli altri percepiscono, che lo si voglia oppure no. Se infatti la speranza non si può misurare con l’intelligenza mediante test, e neppure come si misura la volontà per la quale pure vi sono metodi appositi (alcuni dei quali molto singolari come camminare sui carboni ardenti o rimanere chiusi per ore in una bara con solo una minuscola fessura per l’aria), ciò che un uomo interiormente è si può tuttavia percepire lo stesso, forse si può dire che lo si vede con il terzo genere di conoscenza di cui parla Spinoza verso la fine della sua Etica. Nessuno sa se ci sarà davvero una pesatura delle anime alla fine del mondo, ma la bilancia della psicostasi esiste dentro ciascuno di noi, perché ciascuno è in grado di capire quanto pesa la propria e l’altrui personalità e di sentire se chi abbiamo di fronte è in vendita, e per quanto, oppure no. La speranza per cui un uomo vive è che costituisce il suo tesoro ideale definisce la sua più peculiare personalità, da’ forma e sostanza alla sua anima. Ed è questo che intendo col dire che il vero uomo ha trovato. Non ha trovato nulla di definitivo, di conclusivo, di indiscutibile. Purtroppo (o per fortuna) la vita è fatta in modo tale da non lasciar sussistere nulla di definitivo, di conclusivo, di indiscutibile. La speranza è destinata a rimanere speranza, a non trasformarsi mai in sapere. L’uomo che definisco vero ha trovato una speranza, (non una dottrina né un’ideologia) per la quale vivere, come specie di luce lontana verso cui camminare. Questa speranza non è un possesso che si può materializzare (né come dottrina né come ideologia) …. Sostengo quindi che l’uomo compie la sua vita, rendendola oggettivamente autentica è uscendo dalle trappole dell’Io, quando vive per una speranza più grande di lui, in base alla quale egli, a poco a poco, giunge a dare forma a tutto quello che fa e che dice. Ma ritorna la domanda di Kant: che cosa, dal punto di vista del contenuto, è lecito sperare? La risposta è semplice e insieme stupefacente: è lecito sperare che l’ultimo orizzonte dell’essere sia non l’assurdo ma il senso, non il male ma il bene, non il nulla ma l’essere, non la morte ma la vita. Questo a un uomo ragionevole è lecito sperarlo. Saperlo no, ma sperarlo in modo ragionevole sì. … Vivere per qualcosa di più grande di sé come il bene e la giustizia, cioè vivere l’esistenza all’insegna della più pura prospettiva etica, apre la speranza della mente al fatto che qualcosa di più grande di sé esiste veramente, che esiste una dimensione dell’essere più grande di quella di questo piccolo Io destinato a finire, una dimensione che i popoli di tutti i tempi hanno intuito e chiamato divino, assegnandovi poi il nome particolare di cui erano capaci, tutti comunque inadeguati. Sperare in senso complessivo dell’essere che si dice come vita e come bene significa aver fede in Dio. Un uomo può essere abitato da questa speranza sul senso complessivo della vita, e un altro no, e perché questo avvenga nessuno lo sa. Ma per una vita autentica è necessario credere in Dio? Sono convinto di no. Ritengo, però che senza credere nel bene e nella giustizia, e che se un uomo crede nel bene e nella giustizia deve poi giustificare a se stesso perché lo fa e provare a pensare quale sia la concezione dell’essere più ragionevole che giustifica tale suo affidamento esistenziale al bene e la giustizia. Se la logica del mondo non è indirizzata al bene ed alla giustizia, perché costruirvi sopra la vita? Ma se vi è indirizzata, facendo sì che valga la pena impostarvi la vita, come chiamare questa direzione verso cui la logica del mondo conduce, direzione che è dentro il mondo ma che è più grande del mondo? Io sono convinto che la dimensione etica, in quanto anelito al bene e alla giustizia sia il fondamento autentico del pensiero del divino nella coscienza umana di tutti i tempi. Per questo, anche a prescindere da qualunque fede religiosa, “beati quelli che hanno fame e sete di giustizia“. Infatti, se la speranza per cui uno vive è complessivamente orientata al bene e alla giustizia (intesi anche solo come forma delle relazioni umane e non come senso complessivo dell’essere), essa produce in chi vive la luce particolare, la luce calma e benevola dell’uomo buono. Dell’uomo giusto. La dedizione della libertà a questa luce interiore rende la vita soggettivamente e oggettivamente autentica. Da qui la terza tesi: “L’uomo autentico è l’uomo che vive per la giustizia, il bene, la verità”.

In un epoca dove la disperazione dilaga e mortifica l’uomo, consiglio la lettura di questo libro che si presta a riflessioni che possono iniziare anche sotto l’ombrellone visto il periodo estivo.

La deriva sovversiva di berlusconi

CassazioneTrovo assolutamente sovversive le dichiarazioni di berlusconi rilasciate nel videomessaggio di oggi (01.08.2013). Questa persona è pericolosa per la stabilità dello Stato Italiano nel momento in cui mette in discussione un potere (quello Giurisdizionale) dello Stato stesso. L’Italia non può permettersi di avere in parlamento una persona che pronuncia simili affermazioni e men che meno a capo di un partito di governo. Spero che i moderati e la destra sappiano decidere da che parte stare: con l’Italia o contro l’Italia! Oggi occorre che le persone perbene capaci scendano in campo per contrastare la deriva morale alla quale stiamo assistendo ormai da anni. La condizione è la medesima del dopoguerra solo che alle macerie dei palazzi oggi si manifestano in tutta la loro pienezza le macerie morali e civili del Paese.

E’ compromesso l’impianto Costituzionale nel momento in cui una persona che è a capo di un partito di governo dichiara di voler riformare la giustizia. Dobbiamo essere consapevoli che questa persona non ha alcuna legittimazione né morale né politica né civile né legale per mettere le mani sulla nostra Costituzione.

In questi anni abbiamo assistito ad una vera e propria trasformazione del costume sociale e della morale con genitori che parlano al telefono con le loro giovani figlie per spingerle a darsi in pasto all’orco perché ricco e potente. E’ stato messo in discussione minandolo alla base il ruolo sociale e politico della donna stessa esportando il principio che per entrare in politica occorre prima entrare nel letto del padrone!

In questa condizione l’Italia non è fatta è da rifare!  Non posso credere che ci siano persone ancora infatuate di questa persona, perché di infatuazione si tratta, non posso credere che il Paese ancora oggi si possa permettere una presenza così ingombrante e moralmente indecente.

Non comprendo le persone di buona volontà che pensano ancora di stare a casa pensando al loro orticello, come se la falda inquinata non possa mettere in discussione il loro raccolto. Il distacco che ormai si registra tra la politica ed i cittadini deve essere colmato. Le migliori intelligenze del Paese devono essere convolte e l’inerzia dei partiti che oggi siedono in parlamento li rende responsabili. Non è questione di poltrona o di scranno, il Paese ha bisogno di credibilità internazionale, oggi assolutamente pregiudicata. Una persona che avesse avuto a cuore il bene del paese si sarebbe fatta da parte per l’interesse superiore del Paese ed, invece, assistiamo ad una reazione scomposta che è in grado di condizionare menti semplici.

Uno Stato che è stato costruito col sangue dei nostri partigiani, dei nostri padri, dei nostri nonni e con la fame e la mortificazione della guerra non può restare zitto a simili sovversive affermazioni. Non è più il tempo di stare a casa! Oggi è il tempo della partecipazione! Oggi è il tempo della discussione! Oggi è il tempo di parlare di politica per strada, nei bar, in famiglia con i nostri figli, nelle piazze, nelle scuole dappertutto in ogni angolo in cui c’è un nostro concittadino italiano o straniero che sia! Oggi è il tempo di ricostruire la coscienza civile dei Cittadini Italiani.

L’appello non è né di sinistra né di destra è un appello ai cittadini tutti, affinché capiscano che la politica è linfa vitale per la vita di un paese e non quella cosa sporca e moralmente discutibile che si pratica nei palazzi a porte chiuse da cui stare lontani.

Il disinteresse per la politica è causa dello sfascio del paese! Spero che queste mie preoccupazioni non siano fondate ma se ho sentito ciò che ho sentito credo ci sia poco da stare tranquilli: dentro le nostre case non c’è solo la crisi morale e politica che ci violenta ogni giorno con notizie raccapriccianti ma anche la più grave crisi economia del dopoguerra. Questo è il tempo dei Partigiani!

 

Ecco il link del videomessaggio di Berlusconi da cui ho tratto le mie considerazioni

Il videomessaggio di berlusconi (clikka)

Il verdetto:

Questa la dedico ai magistrati della Suprema Corte che hanno saputo mantenere la loro indipendenza onorando i loro predecessori: L’Idea che non muore (clikka)

La malapolitica delle nomine attecchisce in municipalità!

volpedo il quarto statoSul potere discrezionale esercitato dai politici nelle nomine ho scritto, manifestando chiaramente come la pensiamo (Ai nominati della politica diciamo no! clikka). Ieri (15.07.2013) in Consiglio Comunale noi di Ricostruzione Democratica, per la seconda volta, ci siamo rifiutati di designare i componenti nella commissione urbanistica perché riteniamo che occorra con urgenza un nuovo regolamento per il quale abbiamo anche presentato una proposta.  Abbiamo, quindi, dimostrato con un atto concreto che a noi non interessa fare la politica dell’amico dell’amico, dell’amante del consigliere, dell’uomo di partito o del piacere personale ma la politica della efficienza e della condivisione del potere che deve essere controllabile specialmente sulle nomine che oggi escono ancora da stanze ben chiuse e sigillate. Peraltro, uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale dell’amministrazione De Magistris è stata la trasparenza, la partecipazione ed i beni comuni, tanto che oggi ci ritroviamo di nuovo con lucarelli coinvolto in un fantomatico osservatorio per i beni comuni insieme ad altri professoroni esperti in teoria, ma evidentemente poco nella pratica. Io mi sono candidato sull’onda dell’indignazione pronunciando le stesse parole d’ordine nelle quali credevo e credo tuttora, solo che la partecipazione, per i politici, è bella ma solo a parole e ciò purtroppo è un cancro che attecchisce sul politico sin dalla culla. Si dalla culla perché mi ha sorpreso  il parere sulla nostra proposta di regolamento della II Municipalità (clikka). A leggerlo, infatti, non ci si crede! In un solo colpo all’unanimità si è manifestata tutta l’arroganza della vecchia ed insipiente politica. Mi ha, infatti, colpito il tono usato nella motivazione dove si legge che “il regolamento è eccessivamente restrittivo … l’attività di controllo dei consiglieri comunali è eccessivamente onerosa …  tutta la parte riguardante la pubblicità delle nomine la si ritiene inutile e serve solo come fumo negli occhi di una fantomatica trasparenza“. Parlando con alcuni amici consiglieri della II Municipalità mi sono reso conto che la questione è stata presa assolutamente sotto gamba consentendo, a qualcuno di orchestrare questo brillante prodotto istituzionale,  calpestando i valori ed i principi che dovevano ispirare tutta l’azione amministrativa di questa giunta cittadina. L’amarezza è che “questi” non si sono neppure premurati di leggere né il parere positivo del segretario generale del comune né di verificare che la proposta è stata in sostanza “copiata” dal regolamento che ha adottato Zedda a Cagliari né di pensare che l’attuale regolamento vigente nel comune di napoli è inapplicabile in quanto superato dalle leggi vigenti e dallo statuto del comune. Nelle parole usate dalla II Municipalità registro con amarezza che la malapolitica è un cancro che alligna sin dalle prime cellule delle istituzioni e sarà difficile sradicarlo benché questa amministrazione abbia fatto della partecipazione e della trasparenza il suo cavallo di battaglia … a parole credo … solo a parole …

sulla questione consiglio anche:

partecipate le nuove nomine alla vecchia maniera clikka

le nomine un cancro per la politica clikka

san carlo chi decide sulle nomine clikka

barracco lascia l’arin regolamento e trasparenza sulle nomine clikka

Il mio intervento sulle nomine al 1:19:06

II Comune ed i migranti

lampedusaIeri (10.07.2013) in consiglio comunale abbiamo approvato la carta dei diritti dei migranti (clikka). Noi di Ricostruzione Democratica con la Federazione della Sinistra abbiamo ritenuto necessario che tale atto non fosse rinviato come richiesto dall’IDV. All’amministrazione va il merito di aver portato in consiglio la discussione ed il provvedimento. Come al solito mi sentirò dire da qualcuno che adesso noi siamo in maggioranza, invece, noi non riteniamo che su questi temi ci sia una questione di maggioranza e di opposizione. Devo dire che per me è stata una soddisfazione votare in modo compatto con tutta la sinistra partendo dalla Federazione della Sinistra fino al PD passando per SEL e l’IDV. Mi chiedo se i cittadini italiani avranno mai questo piacere!

il mio intervento al 3:20:31

Sul tema vedi anche:

l’europa dei popoli non permetterebbe quest’orrore (clikka)

gli stranieri e la bufala dello ius sola (clikka)

L’Italia: un paese orfano

sinistra.destraSo che posso sembrare ingenuo e forse antiquato ma la domanda me la voglio fare lo stesso: perché il nostro paese è rimasto orfano delle ideologie? perché le forze politiche in campo non sono state in grado di costruire un contenitore a destra ed a sinistra in grado di tenere dentro tutte le sensibilità? le risposte in parte le conosco ma credo che i cittadini abbiano bisogno di riferimenti certi e l’incertezza è una responsabilità enorme dei partiti che hanno fallito il loro compito di formazione che ha dato spazio ad improvvisazioni improbabili ed al saccheggio. Senza le idee nei partiti si sono fatti spazio gli interessi personali e di parte … chiunque abbia un minimo di sensibilità non può non avere un senso di schifo e di allontanamento dal bene e dall’interesse pubblico …

Salvatore Settis: Cittadini e Costituzione

settisRiporto un passo del libro di S. Settis (Azione Popolare) nel quale colgo i principi in cui noi di Ricostruzione Democratica ci riconosciamo profondamente. E’ per me una soddisfazione riscontrare come le cose che dice Settis, noi in ogni atto amministrativo o politico che abbiamo adottato, tal volta con sofferenza immensa, le abbiamo attuate senza esitazione ma, ripeto, con sofferenza. Vi invito a rivedere la conferenza stampa della nascita di Ricostruzione Democratica (clikka) in essa troverete molte similitudini tra ciò che all’epoca dicemmo ed il pensiero di Settis. La Costituzione per noi è un faro ed è un programma da seguire! Nel Paese sento che c’è un filo che unisce la stragrande maggioranza degli Italiani un filo che oggi gli uomini di buona volontà hanno l’obbligo di seguire.

Da Azione Popolare di S. Settis:

In un paese dove i partiti e governi d’ogni sorta e d’ogni colore hanno identificato il bene comune con la cieca ubbidienza ai mercati, i cittadini non possono accontentarsi del ruolo di elettori, subendo passivamente ogni decisione. In una democrazia rappresentativa è cruciale l’idea che il popolo sovrano conservi un potere negativo che gli consente di vigilare, giudicare, influenzare e censurare i propri legislatori. Il potere negativo dei cittadini non nega la rappresentanza politica e non si sostituisce ad essa, ma ne è l’indispensabile contrappeso e completamento: sovranità informale che esiste al di fuori delle istituzioni statali allo stesso tempo fornisce quell’esprit che rende tali istituzioni legittime agli occhi degli individui. … L’esercizio del potere negativo da parte di organizzazioni militanti ma non di partito può oggi essere  più diffuso, efficace e intenso grazie alle tecnologie informatiche. Esso non comporta la rivendicazione del potere politico, anzi la esclude, perché punta sulla figura del cittadino-giudice, che non vuole sminuire la legittimità morale delle istituzioni  rappresentative; al contrario tende a potenziarle. Non fa antipolitica, anzi genera antidoti contro la vera antipolitica, perché getta le basi per una nuova consapevolezza dell’identità fra comunità dei cittadini e Stato, per una nuova responsabilità. Innesca percorsi attraverso i quali i cittadini che non si riconoscono in una determinata azione di governo possono impedirla o sovvertirla con mezzi legali. Impone a chi milita nei comitati una riflessione di fondo non solo sui singoli interessi e problemi ma sui principi in nome dei quali è giusto metterli a fuoco ed esigere una soluzione. E questi principi, basta saperlo e basta volerlo, sono contenuti nella nostra Costituzione. E’ in suo nome, cioè in nome del bene comune, che può avvenire non solo la confluenza dei movimenti, ma anche una vasta riaggregazione dei cittadini intorno a ideali politici che vengono dal passato (Resistenza e la Costituente) e possono ispirare il futuro perché garantiti dalla Carta suprema del nostro ordinamento. Riappropriarsi della cittadinanza e della democrazia mediante consapevoli atti di cittadinanza richiede molto lavoro dei cittadini su se stessi e sulle istituzioni. Ma lo sbocco di questa riflessione e di questa azione non è necessariamente l’insurrezione… La nostra Costituzione, al contrario, ci autorizza a rispondere alla crisi della rappresentanza e della democrazia con una ribellione civile in nome della legalità costituzionale. Rivisitare la genealogia della Costituzione e riattivarne pienamente il progetto è la strada obbligata per sfuggire alla trappola mortale di un movimentismo senza meta, di un orizzonte irraggiungibile dove il traguardo è nulla, il movimento è tutto. Dobbiamo spronare le istituzioni, in nome della legalità Costituzionale, a camminare verso un traguardo ben definito. Verso un’idea d’Italia…. Nella nostra Costituzione il potere negativo dei cittadini c’è già. Suo fondamento è la sovranità popolare, l’insistenza della collettività e sulla nazione, il ruolo chiave dei diritti di cittadinanza, la centralità del lavoro e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese….

Gli atti dei poteri pubblici, per passiva acquiescenza al dispotismo dei mercati, restringono ogni giorno lo spazio dei diritti civili, dei beni comuni, dei servizi sociali. Ci tolgono libertà e democrazia. L’antidoto è la sempre più attiva e concreta partecipazione di tutti alla cosa pubblica, una piena assunzione di responsabilità. In prima persona!

Philip Glass: “Ogni Volta che la legge della giustizia va spegnendosi e il male domina la terra, noi emergiamo alla vita, generazione dopo generazione, prendiamo forma visibile e agiamo, ogni uomo fra altri uomini, per tutelare il bene, respingendo il male e ricollocando la virtù sul trono

Don Andrea Gallo: Lettera ai Giovani

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Come dimenticare una persona come Don Gallo, ci mancheranno le sue riflessioni.

Tratto dal libro di Don Gallo “Se non ora adesso”, la “Lettera ai giovani:

Comprendo profondamente quello che i giovani vivono, e sono costernato, addolorato per l’assenza di futuro cui sembrano condannati. Come faccio ad avere la pretesa di sradicare questa assenza di futuro? I responsabili delle grandi agenzie, dei grandi poteri, delle istituzioni sembrano interessati solo a giovani che “servono”, che rinunciano alla loro coscienza critica, alla loro autonomia, alla loro autogestione: il potere vuole solo giovani ubbidienti. Ricordo che ero ancora al Carmine, ero amico di un taxista che con molti sacrifici faceva studiare il figlio. Siamo negli anni Settanta, il figlio si laurea brillantemente e partecipa a un concorso all’Eni arrivando primo assoluto. Assunto immediatamente, rinuncia. Suo padre viene da me disperato, aveva lavorato una vita, era riuscito a comprare una licenza da taxista, per il figlio aveva fatto tutto quello che poteva. Niente, tutto in fumo. Perché? Volevo capire. Così ho incontrato quel ragazzo, abbiamo parlato, gli ho chiesto come mai aveva rifiutato. Il concorso era basato solo su test, bastava una crocetta, un sì o un no. Nessun margine. Nessuna libertà, nessun confronto. Il ragazzo si è sentito uno strumento in mano di un ingranaggio molto più grande di lui. Mi disse che dove aveva risposto sì ed era risultato giusto, lui in realtà avrebbe messo un no, e via così. Ci ha ripensato e ha rifiutato il posto. Come dargli torto. Adesso fa il ricercatore. Con i giovani bisogna partire da questo assunto: condividiamo con voi l’assenza di futuro. Mario Monicelli lo aveva capito, e secondo me si è suicidato perché non aveva visto segni di rivolta. Ora i segni cominciano a vedersi, sono minoranze anche se consistenti, ma quante volte i giovani sono stati schiacciati. È un omicidio lento, troppi giovani studiano e poi non hanno sbocchi. Marco Revelli chiama i giovani “scoraggiati inattivi“: molti, dopo essere passati attraverso la delusione, la disperazione, l’alienazione, sono scoraggiati. Inattivi: in Italia i giovani che non lavorano superano di tre volte quelli dell’Europa, e il lavoro neanche lo cercano. Allora ci vuole una rottura e può essere necessario anche uscire dalla legalità, quella del potere, per entrare nell’illegalità non violenta. È certo che chi fa una scelta così deve essere pronto ad accettarne le conseguenze. Socrate venne accusato di istigare i giovani alla illegalità. Anche io l’ho fatto e per questo sono stato denunciato: avevo partecipato all’occupazione di una vecchia scuola, un posto bellissimo. Che male c’era? Non abbiamo abbattuto niente, abbiamo valorizzato un luogo abbandonato e lo abbiamo utilizzato. Naturalmente con i giovani devi essere trasparente, devi proporre esempi, non bastano le parole. C’è un teologo che continua a dire che la fede viene prima dell’etica, ma è nel comportamento coerente con gli insegnamenti di Gesù che si può sperimentare la fede. Ricordo che ero già in noviziato e una delle parabole del mio insegnante diceva: “Timeo Jesum transeuntem”, temo il passaggio di Gesù. Poi ci faceva guardare un quadro dove c’era una porta e ci diceva: guardate bene la porta, cosa ne dite? Non aveva serratura, quindi uno dal di fuori non poteva entrare, neanche se aveva le chiavi. “Significa che Gesù passa, ma se tu non apri, è inutile!”. Ecco perché quel vescovo del Brasile aveva scritto sulla facciata della sua chiesa: caro cristiano, tu che stai per entrare, sappi che il mondo si divide in oppressori e oppressi. Tu da che parte stai?

Bisogna ricordare cosa scrisse Antonio Gramsci nel ’19, il suo richiamo contro l’indifferenza e l’urgenza di scegliere da che parte stare. I giovani ci provano, stanno lavorando, elaborando proposte concrete, coerenti e costruttive, stanno arrivando alla scelta epocale della non violenza. E questo sta accadendo in tutto il mondo. È “un fiume che avanza” e che ha cominciato il suo lento cammino già dieci anni fa al G8 di Genova, quando i giovani hanno posto una domanda importante: “Signori del G8 – hanno gridato – non vi sembra che sia una cinica pretesa venirci a dire che l’unico mondo possibile è il vostro?”. Oggi c’è una crisi che non è politica, ma di sistema. I giovani sanno che è di lunga durata e che bisogna costruire un tessuto nuovo. È faticoso, ma anche entusiasmante, e noi non possiamo deluderli. La mia bussola è la Costituzione, l’articolo 3 in cui si parla della differenza tra previdenza e assistenza, della tutela della parità della donna lavoratrice, del lavoro minorile, della sicurezza sul lavoro: questa è la legalità da difendere. Qualche mese fa ero a Piombino per un incontro sul drammatico tema dei morti sul lavoro, e in quell’occasione abbiamo riletto l’articolo: “Tutti i cittadini – recita – hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Be’, allora, chi è che non ha rispetto della legalità? Chi disattende la Costituzione o chi protesta perché la Costituzione viene disattesa? È ora che i partiti capiscano quale ruolo dà loro la Costituzione e non mettano il cappello ai movimenti. La nostra è una Res publica, è di tutti. A partire dai giovani che devono essere coinvolti in prima persona nel processo di rinnovamento di questa democrazia e di difesa della Costituzione. La Costituzione è stata fatta per i giovani, per tutti i giovani che verranno.

Giuseppe Di Vittorio: Buon 1° Maggio

941937_10200593182504761_561966530_nNel giorno della festa del lavoro mi piace ricordare la lettera di Giuseppe Di Vittorio (che in collo in calce). Ecco i fatti che la generarono: Siamo a Cerignola, la vigilia di Natale del 1920, e a casa di Giuseppe Di Vittorio arriva un cesto-dono offerto dal conte Giuseppe Pavoncelli, proprietario terriero e signorotto del paese, nonché spesso controparte delle locali battaglie sociali del sindacalista pugliese. E per questo, da lui chiamato “il Principale”. La missiva motiva il rifiuto sofferto di quel dono, in un’epoca di povertà assoluta per la sua famiglia. A lungo inedita, è stata ritrovata durante un sopralluogo dagli sceneggiatori che stavano preparando il film sul leader sindacale, morto più di cinquant’anni fa. Ora, è custodita a Cerignola (Foggia) a “Casa Di Vittorio”, il progetto-contenitore diretto da Giovanni Rinaldi. La lettera parla da sé. Trasuda etica, dignità e reciproco rispetto tra “signori” d’altri tempi. Si direbbe lontana anni luce dall’odierna realtà, quotidianamente raccontata dalle cronache d’ogni dove. E rivela il raffinato senso politico-diplomatico di Giuseppe Di Vittorio, che con la richiesta finale della “stessa persona”, per il ritiro del dono, in un ideale scorrere al contrario dell’immagine, cerca di cancellare ogni traccia del fatto e di considerarlo come mai accaduto…. Questa lettera rappresenta la dignità del lavoro e del lavoratore!

Egregio Sig. Preziuso, In mia assenza, la mia signora ha ricevuto quel po’ di ben di Dio che mi ha mandato. Io apprezzo al sommo grado la gentilezza del pensiero del suo Principale ed il nobile sentimento di disinteressata e superiore cortesia cui si è certamente ispirato. Ma io sono un uomo politico attivo, un militante. E si sa che la politica ha delle esigenze crudeli, talvolta brutali anche perché – in gran parte – è fatta di esagerazioni e di insinuazioni, specialmente in un ambiente – come il nostro – ghiotto di pettegolezzi più o meno piccanti. Io, Lei ed il Principale, siamo convinti della nostra personale onestà ma per la mia situazione politica non basta l’intima coscienza della propria onestà. E’ necessaria – e Lei lo intende – anche l’onestà esteriore. Se sul nulla si sono ricamati pettegolezzi ripugnanti ad ogni coscienza di galantuomo, su d’una cortesia – sia pure nobilissima come quella in parola – si ricamerebbe chi sa che cosa. Sì che, io, a preventiva tutela della mia dignità politica e del buon nome di Giuseppe Pavoncelli, che stimo moltissimo come galantuomo, come studioso e come laborioso, sono costretto a non accettare il regalo, il cui solo pensiero mi è di pieno gradimento. Vorrei spiegarmi più lungamente per dimostrarle e convincerla che la mia non è, non vuol essere superbia, ma credo di essere stato già chiaro. Il resto s’intuisce. Perciò La prego di mandare qualcuno, possibilmente la stessa persona, a ritirare gli oggetti portati. Ringrazio di cuore Lei ed il Principale e distintamente per gli auguri alla mia Signora….

(Dev.mo Giuseppe Di Vittorio)


Da Wikipedia: Giuseppe Di Vittorio

Gli anni giovanili

Figlio di braccianti agricoli che lavoravano la terra dei marchesi Rubino-Rossi di Cerignola. Costretto a fare il bracciante, a causa della morte del padre per un incidente sul lavoro nel 1900, dopo avere appena imparato a leggere e scrivere sommariamente, teneva un quaderno in cui annotava termini ignoti che udiva, mettendo da parte faticosamente i soldi per acquistare un vocabolario. Già negli anni dell’adolescenza, a 12 anni circa, aveva iniziato un’intensa attività politica e sindacale con Aurora Tasciotti; a 15 anni fu tra i promotori del Circolo giovanile socialista della città, mentre nel 1911 passò a dirigere la Camera del Lavoro di Minervino Murge.

Famiglia

Di Vittorio si sposò due volte: la prima con Carolina Morra, sindacalista e bracciante, dalla quale ebbe i figli Baldina e Vindice; dopo essere rimasto vedovo si risposò con la giovane giornalista Anita Contini, che aveva trent’anni meno di lui.

Di Vittorio sindacalista

Al centro dei problemi del lavoro c’era allora in Italia, come oggi, la questione meridionale. Nel 1912 Di Vittorio entrò nell’Unione Sindacale Italiana, arrivando in un anno nel comitato nazionale. Così come alcuni membri del sindacalismo rivoluzionario egli fu “interventista” riguardo alla prima guerra mondiale, a detta di Randolfo Pacciardi, smentito da Di Vittorio stesso in un’intervista a Felice Chilanti.[1]

Di Vittorio, a cui amici ed avversari riconobbero unanimi un grande buonsenso ed una ricca umanità, seppe farsi capire, grazie al suo linguaggio semplice ed efficace, sia dalla classe operaia, in rapido sviluppo nelle città, sia dai contadini ancora fermi ai margini della vita economica, sociale e culturale del Paese. Lui stesso era un autodidatta, entrato nella lotta sindacale e politica giovanissimo, inizialmente come socialista e successivamente come comunista, dal 1924, tre anni dopo la scissione di Livorno del 1921.

L’entrata in politica con il Partito Socialista, il Fascismo e la clandestinità comunista

La elezione a deputato avviene in circostanze del tutto eccezionali. Esse ci offrono un quadro della situazione non solo personale, ma ci indicano lo scontro sociale in atto tra la fine del 1920 e la metà del 1921. Grazie alla conoscenza di Giuseppe Di Vagno in Puglia, che lo presenta poi aBruno Buozzi, allora entrambi membri del Partito Socialista Italiano al Parlamento, diventa anche lui membro del PSI. Con lo stesso gruppo nel1921 viene eletto deputato mentre è detenuto nelle carceri di Lucera. In seguito avrebbe diretto anche la Camera del Lavoro di Bari, dove organizzò la difesa della sede dell’associazione, sconfiggendo gli squadristi fascisti di Caradonna insieme con ex ufficiali legionari di Fiume, socialisti, comunisti, anarchici e Arditi del Popolo. Con la scissione di Livorno, aderisce al Partito Comunista Italiano, dove rimarrà tutta la vita.

Con l’avvento del Fascismo in Italia e disciolti tutti i partiti e i sindacati, viene condannato dal tribunale speciale fascista a 12 anni di carcere, nel1925 riuscì a fuggire in Francia dove aveva rappresentato la disciolta Confederazione Generale Italiana del Lavoro nell’Internazionale dei sindacati rossi. Dal 1928 al 1930 soggiornò in Unione Sovietica e rappresentò l’Italia nella neonata Internazionale Contadina per poi tornare a Parigi ed entrare nel gruppo dirigente del PCI clandestino. In questo periodo iniziarono i primi dissapori con il segretario del PCI sulla figura guida di Stalin del ‘Movimento operaio internazionale’ e sul suo diktat, accettato da Togliatti, contro i ‘socialfascisti‘. Di Vittorio quindi si pose contro la similitudine voluta da Stalin nell’equiparare il Nazifascismo alla Socialdemocrazia, anche perché considerava l’unità politica della sinistra (socialisti e comunisti) ancora attuale, in nome di un socialismo democraticomarxista ma rispettoso della libertà.

Durante la guerra d’Etiopia, su indicazione del Comintern, inviò una squadra di tre persone – tre comunisti – chiamati “i tre apostoli”, fra cui Ilio Barontini, esperto in questo genere di missioni – con l’incarico di organizzare la guerriglia locale contro l’invasione fascista.

Insieme ad altri antifascisti partecipò alla guerra civile spagnola e, nel 1937, diresse a Parigi un giornale antifascista la “Voce degli Italiani” a cui collaborano personaggi come Maurizio Valenzi. Fu una delle poche voci autorevoli che si espresse contro le leggi razziali fasciste antisemite, avendo capito che, dietro l’apparenza di leggi “blande” (rispetto a quelle tedesche), avrebbero in realtà portato col tempo allo sterminio.[2]. Nel 1941fu arrestato dalla polizia del regime e mandato al confino a Ventotene. Nel 1943 fu liberato dal governo Badoglio e, negli ultimi due anni dellaseconda guerra mondiale, prese parte alla Resistenza tra le file delle Brigate Garibaldi.

Nel 1945 fu eletto segretario della CGIL, che era stata ricostituita l’anno prima con un accordo fra Di Vittorio, Achille Grandi e Bruno Buozzi. Quest’ultimo, ucciso dai nazisti la sera prima della firma del patto, fu sostituito da Oreste Lizzadri. I tre erano i rappresentanti delle principali correnti del sindacalismo italiano: comunista, cattolica e socialista. L’anno seguente, nel 1946, fu eletto deputato all’Assemblea Costituente con il PCI.

Il Dopoguerra e il dissenso da Togliatti per i ‘fatti d’Ungheria del 1956’

L’unità sindacale così raggiunta durò fino al 1948, quando, in occasione dello sciopero generale politico proclamato in seguito all’attentato a Palmiro Togliatti, la componente cattolica si separò e fondò un proprio sindacato, la CISL, presto imitata dai socialdemocratici che si raggrupparono nella UIL.

La fama ed il prestigio di Di Vittorio ebbero largo seguito tra la classe operaia ed il movimento sindacale di tutto il mondo tanto che, nel 1953, fu eletto presidente della Federazione Sindacale Mondiale. Fu uno dei primi marxisti a intuire la pericolosità del regime stalinista sovietico.

Nel 1956 si riacutizzò il confronto con Togliatti sull’URSS, suscitando scalpore la sua presa di posizione, difforme da quella ufficiale del PCI, contro l’intervento dell’esercito sovietico per reprimere la rivolta ungherese, tanto che lo stesso Di Vittorio in una confidenza (come riferì anni dopo Antonio Giolitti) esclamò: «L’Armata rossa che spara contro i lavoratori di un paese socialista! Questo è inaccettabile! Quelli sono regimi sanguinari! Una banda di assassini!».

La pietra dello scandalo fu che Di Vittorio, allora segretario generale della CGIL, scrisse un comunicato, votato all’unanimità dal sindacato, nel quale rimarcava tutto il suo dissenso nei confronti della repressione comunista: «L’intervento sovietico contraddice i principi che costantemente rivendichiamo nei rapporti internazionali e viola il principio dell’autonomia degli Stati socialisti». Togliatti, segretario del PCI, volle la ‘sconfessione’ del comunicato della CGIL, reo di essere contro il ‘Partito’ e di renderlo debole agli occhi dell’Italia e del mondo. Di Vittorio si oppose alla richiesta di Togliatti mantenendo ferma la sua idea di un’autonomia del sindacato nei confronti dei partiti politici.

Di Vittorio continuò a guidare la CGIL fino alla sua morte, avvenuta nel 1957 a Lecco, poco dopo un incontro con alcuni delegati sindacali: già colpito da un primo infarto nel 1948 e da un secondo nel 1956, e un terzo attacco lo stroncò all’età di 65 anni.[3] È sepolto presso il Cimitero del Verano di Roma.

Il 25 aprile la memoria che non vogliamo perdere !

DSCN0852 DSCN0854 DSCN0856Oggi (25.04.2013) come l’anno scorso siamo scesi per le strade a ricordare la liberazione esortando i cittadini a non dimenticare. Rispetto al 25 aprile del 2012 abbiamo notato una scarsa partecipazione, le persone passavano con i bambini per mano, qualcuno cantava a bassa voce con noi bella ciao, quasi avesse vergogna, noi abbiamo cantato per tutta la villa comunale ed a piazza vittoria. Dove stavano gli uomini e le donne dei partiti? Mi ha rincuorato una signora anziana che dopo averci sentito cantare e parlare della nasci a della nostra Repubblica e della carne e del sangue su cui essa si fonda, mi ha stretto la mano forte forte con un sorriso a mezza bocca. Altri sono passati ignavi, indifferenti inconsapevoli del fatto che un popolo che non ha memoria dei suoi caduti non ha la forza di difendere le istituzioni democratiche finendo per accettare, senza offendersi per questo, che esse siano occupate da nani, saltimbanchi e ballerine !

La politica dell’occupazione e del saccheggio

napolitano_giorgioPremetto che ho profondo rispetto per l’istituzione del Presidente della Repubblica ed ho ascoltato con attenzione il discorso di ieri (22.03.2013) all’atto del suo rinnovato insediamento. Come a tutti, mi ha colpito il forte richiamo e la critica pesante alle manchevolezze dei partiti presenti sulla scena politica nazionale che hanno svolto in sostanza un ruolo fine a loro stessi. Le parole del presidente sono state molto forti e più erano forti e più i parlamentari applaudivano quasi ad autoassolversi! Queste parole mi sono sembrate ancora più forti quando ho appreso la contemporanea notizia di altri due consiglieri regionali della Regione Campania, che hanno subito misure restrittive personali perché avrebbero usato, a scopi personali, i fondi economali messi a disposizione, in virtù della legge, per lo svolgimento delle attività politico/istituzionali. Il problema è che il politico si sente in diritto di poter fare qual che vuole e di dare una sua personale interpretazione del bene e dell’interesse pubblico, che spesso coincide con il suo bene ed interesse personale o di gruppi di persone. Spesso, infatti, chi si trova nelle istituzioni usa beni e denaro come se fossero propri, non percependo nel modo più assoluto che quei beni e quel denaro hanno una valore sacro e non possono essere distolti dalla loro funzione ed, invece, nei palazzi assistiamo a gente che, siccome eletta, va al saccheggio di stanze stampanti, computer ed attrezzatura di varia natura non avendo la percezione di cui dicevo. Con questo voglio dire che è nelle piccole cose che si manifesta l’animo distorto del politicante. Noi di Ricostruzione Democratica come gruppo conciliare del Comune di Napoli abbiamo cercato di percorrere la “pura via amministrativa”, facendo regolari richieste all’ufficio competente, rimaste senza esito, perché non seguite da nostri atti di materiale occupazione da legittimare successivamente così come hanno fatto gli altri (sic!). Siamo, quindi, rimasti, senza stanze né attrezzature occupando temporaneamente un piccolo ambiente con un computer e senza stampanti,  tanto che una volta ho detto al Presidente ed al Direttore Amministrativo deputato al servizio: “ma se il palazzo non è in grado di amministrare se stesso come potrà mai amministrare una città intera?” E’ avvilente e per questo, sempre per voler percorrere una via amministrativa, ho scritto al Direttore Generale ed al servizio ispettivo affinché si adottino anche i provvedimenti disciplinari del caso! Ritornando sul Presidente della Repubblica che lancia strali mi dispiace sentire da una persona parole così pesanti che però hanno alle spalle una esperienza credo distorta. Mi fa male, infatti, vedere il servizio della TV tedesca proprio su Napolitano, parlamentare europeo, che avrebbe intascato rimborsi per viaggi superiori a quelli effettivamente sostenuti, oppure apprendere che il figlio del Presidente, giulio napolitano, oltre ad essere professore ordinario ha anche un incarico (oppure l’ha avuto) presso la presidenza del consiglio dei ministri (giulio napolitano clikka). Come dicevo l’animo del “politico comune” è corrotto ed occorreranno anni di fatti per legittimare le parole.

Su Giorgio Napolitano interessante prospettiva di Giuseppe Aragno (clikka)

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Dal Corriere del Mazzogiorno di oggi 23.04.2013

Ditte fantasma e un rapinatore fatturavano a due consiglieri

Due misure cautelari ad altrettanti esponenti del centrodestra, Sergio Nappi (arresti domiciliari) e Raffaele Sentiero (obbligo di dimora in Campania); entrambi sono accusati di truffa aggravata nell’ambito del filone sui fondi per la comunicazione. Tramite fatture false, ipotizza l’accusa, avevano indotto il Consiglio regionale a concedere rimborsi ai quali non avevano diritto, per un ammontare di circa 60.000 euro. Il caso dei due consiglieri di «Noi Sud» rilancia le polemiche sulla sopravvivenza del gruppo consiliare. Sergio Nappi avrebbe già aderito al gruppo federato Caldoro Presidente, mentre non è chiara la collocazione precisa di Raffaele Sentiero. E’ il coordinatore regionale di «Noi Sud», il senatore Antonio Milo a ribadire che entrambi non fanno più parte del partito.

Si estende l’inchiesta della Procura sulle erogazioni illegali di denaro ai consiglieri regionali. Ieri mattina gli uomini del Nucleo regionale di polizia tributaria della Guardia di Finanza hanno notificato due misure cautelari ad altrettanti esponenti del centrodestra, Sergio Nappi (arresti domiciliari) e Raffaele Sentiero (obbligo di dimora in Campania); entrambi sono accusati di truffa aggravata nell’ambito del filone sui fondi per la comunicazione. Tramite fatture false, ipotizza l’accusa, avevano indotto il Consiglio regionale a concedere rimborsi ai quali non avevano diritto, per un ammontare complessivo di circa 60.000 euro. I provvedimenti sono stati emessi dal gip Roberto D’Auria su richiesta del pm Giancarlo Novelli, della sezione reati contro la pubblica amministrazione coordinata dall’aggiunto Francesco Greco. Il meccanismo della truffa è simile a quello attuato da altri consiglieri indagati nella stessa inchiesta: ai funzionari regionali incaricati di erogare i rimborsi venivano consegnate fatture emesse da ditte inesistenti o compiacenti, convinte a rilasciare i documenti in cambio di futuri appalti. Il caso più eclatante è quello di un pregiudicato per rapina e furto, tossicodipendente, che ha rilasciato a Sentiero una fattura da 7.800 euro. In cambio del favore, ha spiegato, ha ricevuto 50 o 100 euro, non ricorda bene. «Ho precedenti penali — ha dichiarato l’uomo, Salvatore B., agli uomini del colonnello Nicola Altiero — per rapina e furto. Sono stato tossicodipendente da eroina fino al 2006 ed ora sono in cura presso il Sert. Non sono mai stato un imprenditore e non ho mai avuto una ditta in quanto non ne ho le capacità nè la disponibilità economica». L’uomo sulla carta risultava amministratore unico della società Gi.Sca. che nel 2010 ha rilasciato la fattura al consigliere Raffaele Sentiero. I verbali sono contenuti nell’ordinanza cautelare. L’uomo ha anche spiegato di essere stato contattato da un ex poliziotto il quale, in cambio di 50 o 100 euro, gli chiese un documento d’identità e il codice fiscale. Lo scorso anno sia Salvatore B. sia il poliziotto furono arrestati su disposizione del gip di Padova: «Solo in quella occasione — ha chiarito il pregiudicato — ho appreso di essere il titolare di diverse società tra le quali ricordo Gi. Sca. Non ho mai svolto alcuna tipologia di attività per le società di cui risulto essere proprietario o amministratore. Ho la licenza della scuola elementare e non ho mai usato nè sono in grado di usare un computer, anche per le più semplici operazioni». Un altro caso singolare è quello della Lns Immobiliare, società che ha rilasciato diverse fatture ai consiglieri. Fino al 2010 era attiva nei settori della somministrazione di alimenti e bevande e dell’edilizia; pochi mesi dopo le elezioni regionali, però, ha modificato il proprio oggetto sociale, inserendo tra le attività anche quella della comunicazione istituzionale. La circostanza è sottolineata dal gip: «Troppo stringente il contesto temporale e la connessione con la vicenda delle fatture false in favore di Nappi e di Sentiero per non trarne un inequivocabile spunto in ordine alla spregiudicata personalità dei protagonisti della vicenda». Sentiero nei mesi scorsi ha chiesto al pm di essere interrogato e ha ammesso sì di avere esibito fatture false, ma ha sostenuto di avere impiegato il denaro così ricevuto dal Consiglio regionale per «spese di natura politica»: «Trovandomi alla prima esperienza in Consiglio regionale ho certamente sbagliato, nel senso che non ho ben applicato la procedura prevista per la destinazione e l’erogazione di questi fondi. Il denaro che mi è stato poi erogato, e forse anche di più, è stato da me effettivamente destinato a spese di natura politica». Nappi ha invece fatto pervenire ai giornalisti una nota a firma del suo avvocato, Annibale Schettino: «Nell’esprimere fiducia nell’azione della magistratura, Nappi è sereno nell’attesa del previsto interrogatorio di garanzia sicuro di chiarire la vicenda che lo vuole impegnato». Titti Beneduce

Cara INPS. La burocrazia che uccide!

burocraziaBurocrazia infantile, becera, inadeguata, stupida, ingolfata, compromessa, corrotta, incivile, che mortifica, che spegne le speranze, irrazionale, punitiva, da incendiare, a fottere, piena di carte inutili, della giustificazione, sprecona, prepotente, arrogante …

Questi sono gli aggettivi che mi vengo, per ora in mente, leggendo la lettera di un caro amico che voglio condividere con voi. Il racconto riguarda l’INPS ma, purtroppo facilmente, si replica in ogni amministrazione dove c’è gente ignobile che interpreta le circolari come se fossero superiori alle leggi e fatte non per andare incontro ai cittadini ma per punirli, una burocrazia esercitata da piccoli uomini che esercitano così un potere per autocelebrazione  … che schifo!

Alla Direzione I N P S – Sede di Napoli, Via G. Ferraris 4 – 80142 Napoli

Caro INPS, ti riassumerò brevemente ciò che ho sentito stamattina ad uno dei tuoi sportelli della Città di Napoli – in Via Cervantes per essere precisi.

Sono il papà di un ragazzino autistico di dodici anni, il quale, non avendo uso della parola, dipende in tutto e per tutto dagli altri. È incapace di provvedere a se stesso, per intendersi. Da circa otto-nove anni il ragazzo percepisce una ‘pensione di accompagnamento’ corrisposta dall’INPS. Dal momento che entrambi i genitori lavorano – è questa è una fortuna per il mio ragazzo, dato che in Italia il carico principale della disabilità pesa sulle famiglie – e dunque non possono disporre del proprio tempo in modo autonomo, fu deciso che la pensione sarebbe stata versata sul conto corrente bancario del papà, e cioè il conto corrente del sottoscritto.

Ora è accaduto – i casi della vita sono sempre in movimento – che si è reso necessario un cambiamento in questo stato delle cose. Si è deciso cioè di chiedere che la pensione del ragazzo venga versata sul conto corrente intestato alla madre, invece che su quello intestato padre. Il funzionario della banca cui avevo chiesto informazioni sulla procedura, mi aveva detto che l’INPS avrebbe rilasciato un modulo, da riempire con le nuove coordinate bancarie e il timbro della banca, e da ripresentare agli sportelli INPS. Questo, come tu dovresti sapere, anche se è meglio ricordarlo, significa perdere almeno due mattinate intere di lavoro, tenuto conto dell’estensione della città, dei tempi di spostamento, ecc.

Sacrificando la mattinata di oggi, sono passato ai tuoi sportelli di Via Cervantes. Dopo la mia brava oretta d’attesa, mi son sentito dire dal funzionario allo sportello che è impossibile che una pensione d’accompagnamento venga versata in un conto corrente a nome di un genitore. Voleva avvertirmi che per l’accredito occorre un conto corrente co-intestato. Queste sono le ‘nuove disposizioni’ che tu, INPS, hai emanate forse già da un po’, ma che a me erano ignote. Ecco dunque la nuova situazione: la madre di mio figlio dovrà aprire un nuovo conto corrente, un conto co-intestato a lei e ad una persona che è un disabile mentale completo incapace di parlare, e dunque di leggere e scrivere.

Il funzionario, con gentilezza ed aria di sincera commiserazione, mi ha fatto l’elenco degli atti che il sottoscritto e la povera madre del ragazzo dovranno compiere e che comporteranno: (1) la perdita di almeno altre quattro mattinate lavorative; (2) il dilatarsi del tempo necessario per portare a compimento l’operazione; (3) l’accensione di un nuovo conto corrente, che comporterà nuove spese ed un ulteriore complicazione nella già drammatica esistenza quotidiana, comune a tutti i genitori di disabili. Cose da poco, si dirà.

Caro INPS, lasciati però dire quel che mi è passato per la mente, nella parte rimanente di questa mattinata inutile e irritante. Lasciati dire che ho ricordato al funzionario allo sportello le condizioni in cui vivono i genitori di un minore disabile: tra mille difficoltà burocratiche, con la spesa che sale oltre ogni limite di decenza. Credo, caro INPS, che tu sappia che la pensione del mio sfortunato ragazzo non copre neanche la metà delle spese che dobbiamo sostenere per fargli avere una vita decente. E per vita decente non intendo certo auto blu o vacanze ai Caraibi – quelle forse sono i tuoi alti dirigenti a potersele permettere, assieme a tanti esponenti della classe politica di questo paese, non certo il mio ragazzo. Vita decente è semplicemente, per lui, poter usufruire di terapie opportune, avere un tetto sopra la testa, frequentare la scuola per stare tra i suoi coetanei, svolgere qualche attività ricreativa – poche purtroppo, vista la sua condizione…

Questo però è un lusso, non ce lo possiamo permettere. Sono quindi giustificate le leggi sulla tassazione delle pensioni di accompagnamento, è giustificata la compartecipazione (il pagamento di una parte della spesa per la presa in carico del disabile da parte delle strutture competenti), sono più che comprensibili gli aumenti generalizzati dei costi della vita, i quali come si sa non hanno alcun riguardo per le famiglie con un problema serio di disabilità. Ed ultima, anche se mi è difficile immaginarne la necessità, ecco la nuova disposizione sui conti co-intestati.

Caro INPS, lasciamelo dire – l’ho già fatto oggi col tuo funzionario di Via Cervantes – forse è meglio che tu cambi politica, nei confronti della disabilità. Forse è tempo che anche tu recepisca le implicazioni della evoluzione generale della società – non solo la nostra, quella italiana. Oggi ci si chiede di essere efficienti, flessibili e competitivi. Di esser pronti a fare a meno di quei privilegi da dormiglioni che vanno sotto il nome comune di welfare: l’assistenza sanitaria, la presa in carico della disabilità, l’istruzione (scolastica ed universitaria), la giustizia… Insomma, di tutti i capitoli in cui si suddivide l’intervento nel sociale della nostra cara ma ormai superata Repubblica Fondata sul Lavoro.

Anche tu, caro INPS, come interprete di una concezione mutata della società, più adeguata al tempo, e meno incline all’assistenzialismo, potresti fornire un nuovo servizio alla collettività, in relazione alla disabilità. Ti propongo a tal proposito di riabilitare il vecchio progetto nazista di soppressione dei disabili ‘fisici e mentali’: il vecchio e terribilmente famoso T-Project, anche chiamato progetto eutanasia.

Quanto costerebbe, alle finanze italiane, metter su la rete di istituti di soppressione della disabilità che Hitler costruì nel III Reich (e che, per chi ricorda un po’ di storia, fu la struttura entro la quale fu addestrata la classe dirigente dei campi di sterminio dell’Olocausto)? Forse non poco, ma la spesa verrebbe ammortata in breve dall’immenso risparmio in termini di strutture di assistenza e riabilitazione, ed in termini di pagamenti di pensioni.

Perché non ci pensi, caro INPS? Forse i tempi sono davvero cambiati, e tutti noi dovremo essere incoraggiati a migliorare le nostre prestazioni. Per favorire questo processo di modernizzazione (non abbiamo il coraggio di chiamarlo, come facevano i nazisti, purificazione della razza), potremo iniziare con la disabilità, non più nascondendola dietro un falso buonismo, costoso e destinato all’inefficienza, ma al contrario, facendola sparire dalla società.

Con cordialità.

E. C.

Il Papa: Fratello sole sorella luna

Papa1Un papa progressista, è questa la definizione che ho sentito e che mi piace e mi è piaciuto anche il grande segno di umiltà del nuovo papa che, coerente con il nome scelto, ha chiesto ai fedeli di pregare per lui. L’umiltà è la dote dei Grandi Uomini perché è solo dall’ultima posizione della fila che guardando avanti si riescono a vedere tutte le altre! Il Papa dello stato Argentino che è andato in default nel 2001 e con fatica si sta risollevando. Il segno di questo papato spero sarà una chiesa che pone al centro l’uomo e non la moneta. Concetto questo che vale anche per l’Europa! San Francesco come Gesù fu un grande rivoluzionario!

Fratello Sole e Sorella Luna è un film di Zeffirelli su San Francesco che mi commuove ogni volta che rivedo:

fratello sole sorella luna (clikka)

fratello sole sorella luna (clikka)

 

Partiti e Movimenti. La Costituzione: Non un passo indietro!

images-1Quando sento parlare di riforme costituzionali mi viene il prurito, quando sento parlare  di nuove forme di democrazia ivi compresa quella di moda cd. partecipativa mi viene l’orticaria non vi dico cosa mi viene se sento parlare di webdemocrazia, che ho sintetizzato in un paradosso: test a risposta multipla da somministrare ad ogni cittadino Italiano prima del caffé, il cui risultato confluisce e viene elaborato da un grade “cervellonefratello” che sforna tante belle leggi volute, a questo punto, da tutti i cittadini che così potranno fare a meno del parlmento e della cd. rappresentanza indiretta! Di ciò si parla ancora di più quando un sistema economico/sociale/morale, come quello nostro, è in crisi. Tutti si sentono legittimati a distruggere l’immoralità ed a fare una azione di pulizia e quelli che alzano una voce fuori dal coro o semplicemente non sono della “stessa parte” sono considerati indistintamente collusi e responsabili dello sfascio. Io, invece, credo che nessuno è depositario né della verità né della moralità assoluta né della integrità morale.  Spero che le donne e gli uomini di buona volontà presenti nei partiti ed ancor di più nel M5S, oggi il primo partito in Italia, abbiano la forza di difendere sempre e comunque la libertà e la democrazia per come è stata voluta dai nostri padri per il semplice fatto che è l’unica che conosciamo. Sarà che sono condizionato dai miei studi di diritto costituzionale ma io non conosco una modalità diversa di democrazia da quella rappresentativa tracciata e voluta dai nostri padri costituenti! Ogni parola della costituzione al riguardo è stata scritta col sangue dei nostri concittadini, padri, madri, nonni e figli italiani. Ogni persona che si permette di criticarla di censurarla, da qualunque parte essa provenga, deve fare i conti con i nostri morti! Non un passo indietro! Il rappresentante del popolo italiano ha facoltà, diritti e doveri e mai nessun computer potrà sostituire l’essere umano che, con la sua coscienza, è chiamato a rappresentare i cittadini ed a loro a renderne conto! Per questo non sopporto quelli che, senza alcuna consapevolezza di quello che dicono, fanno affidamento sulla cd. “webdemocrazia o democrazia diretta” quasi che il parlamentare fosse un semplice strumento di trasmissione. La libertà di coscienza è  ciò che rende consapevole l’uomo delle sue responsabilità. Io non potrei mai votare una legge razziale, seppure proposta dal 100% degli italiani attraverso un canale web o in altro modo, sotto l’influenza di un grosso condizionamento collettivo! La libertà di coscienza dei parlamentari è un bene prezioso e quando sento parlare della modifica dell’art. 67 della Costituzione e, quindi, della abolizione della libertà di mandato del parlamentare, mi viene il vomito allo stesso modo di quando vendo seduti negli scranni delle assemblee elettive tipi come razzi, scilipoti, de gregorio, il trota o la minetti! Questo, però, non mi impedisce di difendere sempre e comunque la libertà di coscienza del rappresentante! Il bene è troppo prezioso e vale più di questi figuri! Allo stesso modo mi viene l’orticaria se sento parlare amici e compagni di un parlamento all’80 o al 100% M5S. Alle persone che si propongono come paladini della moralità ed agli amici e compagni a cui voglio bene, col cuore in mano, consiglio la lettura di Piero Calamandrei “La funzione parlamentare sotto il fascismo (clikka)”, sono 38 pagine di cui di seguito riporto le conclusioni ed alcuni passi, che in ogni caso non devono esimerVi dal leggere l’intero! Anche agli albori del Fascismo l’immoralità era dilagante è così è accaduto per il Nazismo (clikka) e quelli che si opponevano alle cd. riforme fasciste e naziste erano ritenuti dei collusi fautori della immoralità. Lo scritto mi sembra tremendamente attuale basta sostituire le parole fascismo/fascista/duce con altre più moderne come libertà di informazione/legge elettorale/conflitto di interessi /democrazia diretta/webdemocrazia/vincolo di mandato. Non un passo indietro!

Piero Calamandrei:

E qui, a cento anni di distanza dalla nascita del Parlamento piemontese, che diventò poi il primo Parlamento d’Italia, potrebbe venir voglia di chiedere se questo ventennio di progressivo oscuramento e poi di totale eclissi delle libertà politiche che si ebbe sotto il fascismo, si debba considerare come una interruzione e come un’aberrazione meramente negativa nella storia delle istituzioni parlamentari, quasi un periodo di smemoratezza e di follia alla fine del quale si riprende senza mutamenti il filo del ragionamento rimasto interrotto, o se viceversa esso possa esser considerato come una espressione, morbosa quanto si vuole e repugnante, ma tuttavia sintomatica ed ammonitrice, di cause profonde preesistenti, al fascismo; si potrebbe domandare, cioè, se il cedimento improvviso dello Stato liberale, che sul cammino della civiltà europea dà l’immagine di un abisso imprevedibile aperto dal crollo di un ponte tra due età, sia stato soltanto l’effetto fatale di una dittatura personale transitoria come una meteora, o non sia stato preparato a lunga scadenza e in un certo senso storicamente giustificato da interne debolezze del sistema parlamentare decaduto a parlamentarismo, dalla cronica instabilità dei governi, dalla invadenza dei partiti, dal vaniloquio delle assemblee e dalla loro inettitudine al lavoro legislativo minuzioso e preciso, dalla mancanza di una maggioranza omogenea e riso- luta e di una opposizione competente e costruttiva; e forse anche da ragioni più remote e più generali, di carattere sociale ed economico, e sopra tutto morale. Qualcuno potrebbe anche sentirsi spinto a guardare più vicino a sé, a queste nostre istituzioni parlamentari, come sono state restaurate e rinvigorite (quasi per celebrare coi fatti più che colle parole il loro centenario) nella Repubblica: ed a fare una specie di esame di coscienza, per trarre dalla dolorosa esperienza ventennale qualche prezioso ammonimento che serva a difenderle e a farle sempre più grandi e rispettate nell’avvenire. Se il ventennio fascista potesse servire a evitare di ricader negli stessi errori che lo prepararono, anche questa catastrofe (come qualcuno dice che sempre accada nella storia) potrebbe essere stata, alla fine, fonte di bene.

PIERO CALAMANDREI

Estratto:

Il sistema del «partito politico unico» è inconciliabile col sistema parlamentare, la cui molla è l’opposizione basata sulla pluralità dei partiti: ciò fu riconosciuto anche dai più seri costituzionalisti del tempo, uno dei quali osservò (2) che sotto il regime del partito unico « è costituzionalmente impossibile parlare di un controllo politico delle Camere «sul governo e di una responsabilità politica del governo verso le Camere. Queste, nell’esercizio delle loro attribuzioni, possono « ormai fare opera solo di collaborazione». (E forse anche parlar di «collaborazione» era troppo audace: sarebbe stato più esatto parlar di sottomissione e di acclamazione).

Il Gran Consiglio, costituito fino dall’ottobre del 1922 come organo supremo del partito fascista, entrò colla legge del 1928 a far parte dell’ordinamento costituzionale italiano, come «organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del regime sorto «dalla rivoluzione dell’ottobre 1922 » (art. 1). Così, da organo di partito diventò organo di Stato; ma in realtà, anche dopo questo suo riconoscimento costituzionale, mantenne fisionomia bifronte e funzione ambigua (1)….. Fu, si potrebbe dire, l’organo attraverso il quale il turbolento illegalismo del partito continuava ufficialmente a ricattare la legalità (1): e le sue sessioni ostentarono sempre, anche quando discuteva di affari d’ordinaria amministrazione, un certo cupo tono giacobino da comitato di salute pubblica. …. Il numero dei deputati fu ridotto a quattrocento per tutto il Regno, formante il «collegio unico nazionale », con una sola lista (art. 44, t. u.). Agli elettori fu tolta ogni facoltà di scegliere i candidati, che fu trasferita agli organi sindacali e al Gran Consiglio. La scelta doveva avvenire in due tempi: in un primo tempo erano chiamate le grandi associazioni sindacali giuridicamente riconosciute a proporre candidati in numero doppio a quello dei deputati da eleggere (art. 47-57, t. u.); in un secondo tempo il Gran Consiglio doveva formare la lista dei quattrocento «deputati designati», scegliendoli liberamente nell’elenco dei candidati ed anche fuori di esso, qualora lo ritenesse necessario (art. 52, t. u.). La lista dei deputati designati dal Gran Consiglio, «munita del segno del Fascio littorio », era pubblicata ed affissa in tutti i Comuni. Là votazione doveva avvenire con un sì o con un no, su questa sola lista ammessa (art. 53); e il voto si doveva esprimere collo scegliere nel segreto della cabina tra due schede che il seggio elettorale consegnava ad ogni votante: la scheda tricolore per il sì e la scheda bianca per il no (art. 72).

Non c’è bisogno di lungo commento per spiegare a quale ridicola formalità fossero ridotte con questo sistema le cosiddette elezioni. La scelta dei candidati era rimessa in seconda istanza al Gran Consiglio, ossia, in sostanza, al partito ed al beneplacito del suo capo: il candidato incluso nella lista poteva senz’altro, per questo, considerarsi eletto (tant’è vero che la legge, per gli inclusi nella lista, non parlava più di « candidati, ma di « deputati designati»). Gli elettori erano soltanto chiamati ad approvare in blocco la lista dei deputati scelti dal governo, senza facoltà di apportarvi alcuna variante.

Si trattava dunque di un plebiscito, non di una votazione elettorale (1): il popolo non era chiamato a scegliere i propri rappresentanti, ma ad esprimere in massa non tanto la propria ratifica alla scelta fatta d’autorità, quanto il proprio devoto attaccamento al duce del fascismo ed alla sua politica. Queste cosiddette elezioni dovevano riprodurre in scala nazionale il rito di quei «colloqui colla folla », che in quegli anni ogni tanto risuonavano sulle fortunate piazze d’Italia: nei quali alle concitate domande che l’arringatore rivolgeva alla moltitudine acclamante, non accadeva mai che questa rispondesse di no. Difatti, alla vigilia delle elezioni del 1929, nessuno mai dubitò che l’esito delle medesime sarebbe stato trionfale e che l’unica lista in lizza avrebbe sicuramente sbaragliato quelle avversarie, che non esistevano.

… il capo del governo, nel suo discorso del 9 dicembre 1928 con cui chiuse, alla Camera, la X X V I I legislatura: «Se la Camera, che sta per chiudere oggi i suoi lavori, è stata, «dal punto di, vista numerico, dell’85 per cento fascista, la Camera « che si riunirà qui la prima volta il 20 aprile, sabato, dell’anno VII, « sarà una Camera fascista al cento per cento. E saranno quattrocento fascisti regolarmente iscritti al Partito».

Furono pochissime, specialmente nelle campagne, le sezioni elettorali in cui agli elettori fu consentito di entrare in cabina per fare in segreto la scelta della scheda; in molti luoghi gli stessi elettori, a scanso di guai peggiori, preferirono rifiutarsi di entrare in cabina, per sventolare di fronte al seggio composto di vigili camicie nere, prima di metterla nell’urna, la scheda tricolore documento della loro fedeltà. E poi le schede di Stato erano state opportunamente truccate in modo che, anche quando erano chiuse, si poteva vedere dal di fuori per trasparenza se dentro c’era il bianco o il tricolore: e quegli elettori, che, ignari del trucco, avevan creduto di poter senza pericolo scegliere nel segreto della cabina e poi consegnare ben chiusa al seggio la scheda bianca, avevano poi la brutta sorpresa di trovare sulla porta della sezione gli squadristi addetti a infliggere agli indisciplinati la regolare bastonatura.

Anche nelle grandi città, dove le forme furono più rispettate, avvennero episodi del genere: a Firenze, per esempio, quando, la sera delle elezioni, il segretario federale del tempo annunciò da un balcone la grande vittoria elettorale della giornata, non ebbe scrupolo di denunciare ufficialmente al disprezzo della folla un elenco di «intellettuali antifascisti» che avevano votato scheda bianca. E quegli ingenui, che avevano avuto la dabbenaggine di credere alla legge in cui era scritto che il voto era segreto, dovettero mettersi in salvo per non esser massacrati.

… i deputati, quantunque nominati dalle gerarchie del partito, avevano bisogno per entrare in funzione di una sia pur soltanto simbolica « approvazione » degli elettori, in virtù della quale qualcuno poteva continuare a credere che fossero ancora i loro rappresentanti; e c’era da temere che le garanzie parlamentari di cui continuavano a godere potessero risvegliare in testa a qualcuno di essi velleità di indipendenza; lo stesso nome di «deputati » era sospetto, perché pareva un richiamo alla superata idea del mandato parlamentare. Il ciclo fu concluso colla legge del 19 gennaio 1939, n. 129, il cui articolo 1 così testualmente dispose: «La Camera dei deputati «è soppressa con la fine della X X I X legislatura. È istituita, in sua «vece, la Camera dei fasci e delle corporazioni ». I componenti di questa nuova Camera, che si chiamarono non più deputati, ma «consiglieri nazionali», non ebbero più bisogno di essere scelti: non solo fu abolita per la loro nomina qualsiasi forma, anche puramente simbolica, di consultazione popolare, ma fu escogitato un sistema che rendeva superflua una apposita designazione individuale, in quanto furono chiamati a far parte di quella Camera, ope legis e ratione muneris, tutti coloro che già rivestivano nelle gerarchie del partito e delle corporazioni determinate cariche (1): il solo fatto di ricoprir quegli unici (di componenti del Consiglio nazionale del partito fascista, o di componenti del Consiglio nazionale delle corporazioni: art. 3) produceva automaticamente, di diritto, l’appartenenza alla Camera dei fasci e delle corporazioni. La qualità di consigliere nazionale era in questo modo attaccata, come i doni dell’Epifania, alla poltrona di determinati uffici politici e corporativi; si acquistava con essi e con essi si perdeva (art. 8: «I consiglieri nazionali decadono dalla carica col decadere «dalla funzione esercitata nei Consigli che concorrono a formare «la Camera dei fasci e delle corporazioni»). Con questo sistema il capo del governo, non solo era sicuro di avere ai suoi ordini un consesso di persone disciplinate e ligie (erano gente che egli aveva già scelto in precedenza per metterle ai posti gerarchici del partito e delle corporazioni), ma aveva altresì in mano il mezzo legale per espellere immediatamente dalla Camera qualsiasi sconsigliato che venisse meno al suo dovere di assoluta obbedienza: perché, col revocarlo dalla carica politica o amministrativa che ricopriva nel partito o nelle corporazioni, veniva insieme a togliergli di sotto il seggio di consigliere nazionale (così non c’era pericolo che quei consiglieri facessero movimenti bruschi: rattenevano il fiato, per la paura che quel seggio vacillasse).

La libertà di espressione e la democrazia

partigiani-torino

Secondo grillo solo i capigruppo possono parlare per il movimento. Una curiosità: Se uno vale uno allora perché possono parlare per il M5S solo i capigruppo e Grillo? Chi dovesse dissentire potrà esprimere liberamente il proprio pensiero? Siamo al centralismo democratico o alla dittatura? Sulla democrazia, dico subito, non intendo cedere di un passo il bene è troppo prezioso e chi è stato eletto (anche più di chi non è stato eletto) ha la piena legittimazione politica, etica e morale di esprimere il suo pensiero, anzi ha il dovere di far conoscere il proprio pensiero ai suoi elettori “datoridilavoro”.  Questo è il post che mi è venuto di scrivere immediatamente dopo aver sentito e verificato la notizia sul blog di grillo. La novità del fenomeno parlamentare del M5S porta con se molti quesiti e l’Italia è troppo giovane per aver già dimenticato. La nostra Costituzione, infatti, è il frutto della riprovazione dei costituenti verso il fenomeno dittatoriale che avevano vissuto. Oggi, probabilmente sull’onda della paura, Grillo ammonisce i suoi eccedendo, credo, nel suo ruolo. Penso, infatti, che tutti i parlamentari del M5S, proprio perché eletti, hanno il diritto e sopratutto il dovere di dichiarare i loro pensieri a tutti gli Italiani ed in particolare ai loro elettori e gli Italiani non posso assolutamente consentire che sia messo loro un bavaglio, fosse anche per la ragione di evitare gaffe. Questo è un principio che è a fondamento della nostra Costituzione e neppure Grillo può violare. Spero con tutte le mie forze che i parlamentari del M5S abbiano contezza dei principi che sono in gioco espressamente dichiarati nell’art. 68 dove si legge proprio a tutela della libertà di espressione del parlamentare: “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. E’ così anche il precedente art. 67 in virtù del quale i Parlamentari esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato. Per carità anche a me fa schifo ciò che è accaduto per i casi scilipoti, razzi e de gregorio e chissà quanti altri, ma non si può, per una patologia  del parlamentare, abolire un principio di libertà e di responsabilità! Sento in particolare quest’argomento in quanto io stesso l’ho vissuto sulla mia pelle non votando in consiglio comunale il bilancio (clikka) e subendo anche un attacco feroce in consiglio comunale (clikka) che mi ha portato poi ad uscire dal gruppo Napoli è Tua per fondare il gruppo di Ricostruzione Democratica (clikka). Porsi contro la maggioranza del proprio gruppo, movimento o partito è una decisione sempre molto sofferta se assunta con coscienza, libertà e buona fede. Credo che ciò sia sacrosanto! Ancora non credo nella truffa della cd. democrazia diretta e chi la propone sa di essere un truffatore. Essa non è percorribile! Il rappresentante spesso è solo con la sua coscienza nella decisione del voto, perché il voto stesso presuppone quasi sempre una intensa attività di studio che non tutti possono fare (tal volta, purtroppo, neppure il rappresentante). Forse per realizzare la democrazia diretta potremmo abolire il parlamento e tutti gli organi elettivi e collegare tutti gli italiani tramite rete ad un enorme “cervellone” che propina test a risposte multiple da cui poi trae il testo di legge da applicare. Spero non sia questo il progetto di Casaleggio! Ad ogni buon conto credo sia una fortuna che in ogni famiglia ci sia ancora almeno una persona che ha vissuto lottando contro l’oppressione delle libertà.

E’ strano che per questo post sono stato stigmatizzato da attivisti del M5S che sono addirittura giunti ad abbandonare un gruppo Facebook perché si sono ritenuti offesi. Non capisco eppure credo che non abbia fatto altro che difendere il principio di libertà di espressione in particolar modo dei parlamentari del M5S!

Dal Blog di Beppe Grillo: “Lunedì sono stati eletti dai gruppi parlamentari del M5S per i prossimi tre mesi due capigruppo/portavoce, Roberta Lombardi per la Camera, e Vito Crimi per il Senato. Loro sono stati titolati a parlare dopo aver discusso e condiviso i contenuti con i componenti del gruppo. Attenti ai lupi!”

La Giustizia Sociale ed i grumi di potere

imagesTutti coloro che amministrano la cosa pubblica devono avere il coraggio di rompere i grumi di poteri e di privilegio che drenano linfa vitale al paese. Questo è il presupposto per essere credibili ed essere buoni amministratori. Non esistono né parenti né amici degli amici né consorterie di sorta!! Il bene e l’interesse pubblico innanzitutto. Chi oggi ha una posizione di privilegio nello sfruttamento delle risorse comuni deve cedere il passo all’interesse generale retribuendo equamente i cittadini rappresentati dalle istituzioni. Coloro che hanno approfittato della incompetenza degli amministratori o peggio hanno assunto posizioni di privilegio con la complicità degli amministratori compiacenti o deboli, hanno il dovere di riequilibrare i rapporti di sfruttamento delle risorse comuni in ossequio al principio di solidarietà e di giustizia sociale. Gli amministratori hanno l’obbligo di rendere pubblici tutti gli squilibri esistenti nello sfruttamento dei beni comuni, affinché i cittadini sappiano chi sono le “sanguisughe” ed i responsabili abbiano a vergognarsene. La mia esperienza nell’amministrazione pubblica mi dimostra che questa strada è molto impervia ed ostacolata, ma non ne vedo altra non vedo un altro modo per onorare il mandato conferito, non vedo altra soluzione. Ciò comporta una sovraesposizione proprio verso i potenti, verso coloro che comandano, ma chi non ha la spinta etica e morale per fronteggiare la sfida, oppure è avvezzo ad ossequiare il potere, non ci provi neppure ad assumere un impegno e se l’ha assunto si ritiri, la sua debolezza è di danno alla collettività.

Donne ed Uomini della Politica

politiciIn un primo momento pensavo di fare un’altra pagina con le foto del politici di questa campagna elettorale per metterli a confronto, poi mi sono fermato non ce l’ho fatta! Provateci Voi, a me è sembrato che facessi quasi un atto blasfemo. La fisiognomica  me l’ha impedito! Eppure dovremmo fare in modo che gli atti dei politici che ci hanno portato fuori dal ventennio fascista ed hanno contribuito a fare dell’Italia la sesta potenza mondiale siano raccontati ai nostri ragazzi, ai nostri giovani che pensano, invece, che la politica è quella dei fiorito, delle mazzette, della svendita del bene pubblico, delle tangenti, della imprenditoria di quattro soldi che va a braccetto con la politica corrotta che ammazza il mercato! La politica, invece, dovremmo spiegare ai nostri ragazzi, è qualcosa di diverso: E’ altruismo, è sacrificio, è passione, è speranza, è studio, è competenza, è solidarietà. Nulla può essere inventato all’improvviso ed occorre che le scuole pubbliche, ancora una volta, facciano uno sforzo. Occorre che i professori e gli insegnanti, di ogni ordine e grado, trasmettano ai loro studenti questi valori, questi pensieri. E’ l’unica strada che oggi vedo percorribile, le famiglie sono state distrutte dalle cd. armi di distrazione di massa e non possono farlo. Occorre che si ricostruisca il collante che tiene insieme la società. Non ci sono ricette precostituite, che valgono in ogni occasione, è il senso di solidarietà che tiene insieme un paese, dove il riconoscimento dei diritti passa attraverso la consapevolezza di essere cittadini è quindi destinatari di doveri. Diversamente non vedo prospettive…

Sono Malala e non ho paura di voi! Il diritto allo studio negato dall’integralismo religioso

Talebani.-Io-sono-Malala_h_partb

Non riesco proprio a capire come motivi religiosi possano creare tali mostruosità. Malala Yasufazi, la ragazza quindicenne ferita gravemente dai talebani in Pakistan, nella regione dello Swat perché voleva andare a scuola. Il 9 ottobre le hanno sparato in testa riducendola in fin di vita nella valle dello Swat, la turbolenta area tribale pachistana dove è nata. L’attentato all’adolescente di 14 anni diventata un’eroina antitalebana ha scosso le coscienze nel suo paese e colpito mezzo mondo. La ragazza ha chiesto di ringraziare tutti coloro che nel mondo stanno sostenendo la sua coraggiosa lotta a favore dell’istruzione delle donne. “Ci penso spesso e mi immagino chiaramente la scena. Anche se verranno a uccidermi dirò loro che sbagliano. L’istruzione è un nostro diritto fondamentale“. Lo aveva scritto Malala Yousafza sulla sua pagina Facebook, dove aveva ricevuto le prime minacce di morte dei talebani. Il 9 ottobre le hanno sparato in testa riducendola in fin di vita nella valle dello Swat, la turbolenta area tribale pachistana dove è nata. L’attentato all’adolescente di 14 anni diventata un’eroina antitalebana ha scosso le coscienze nel suo paese e colpito mezzo mondo.

Sabato 3 gennaio 2009 

TI AMMAZZERÒ
 La scorsa notte ho fatto un sogno terribile con elicotteri militari e talebani. La mamma mi ha preparato la colazione e sono andata a scuola. Ho paura perché i talebani hanno emesso un editto che vieta a tutte le ragazze di andare a scuola. Nella mia classe siamo solo 11 su 27. Lungo la strada per tornare a casa sento un uomo che dice: “Io ti ammazzerò”.

Domenica 4 gennaioCADAVERI PER LE STRADE 
Oggi è giorno di festa e mi sono svegliata tardi, alle 10. Sento mio padre che parla di tre cadaveri in mezzo all’incrocio Verde.

La domenica, prima delle operazioni militari, il picnic era un’usanza. Adesso la situazione è tale che non lo facciamo da un anno e mezzo.

Un’altra abitudine era la passeggiata dopo cena, ma ora ci chiudiamo in casa prima del tramonto. Il mio cuore batte forte: domani devo andare a scuola.

Lunedì 5 gennaio NON INDOSSATE ABITI COLORATI
 Ero pronta per andare a scuola quando mi sono ricordata che il preside ci aveva chiesto di non indossare l’uniforme (studentesca, per evitare di essere un bersaglio, ndr), ma indumenti normali. Così decido di mettere il mio vestito rosa preferito.

Altre ragazze hanno scelto vestiti colorati e la scuola ha un (altro) look.

Si avvicina un amico e mi dice: “Per l’amor di Allah… La tua scuola verrà attaccata dai talebani”. Durante l’assemblea ci chiedono di non indossare più vestiti sgargianti perché i talebani non li sopportano.

Mercoledì 14 gennaio

NON VEDRÒ PIÙ LA MIA SCUOLA?Le vacanze invernali iniziano domani, ma non sono contenta. Il preside, per la prima volta, non annuncia che giorno ricominceranno le lezioni. Se i talebani manterranno il loro editto, non torneremo in aula.

Io penso che la nostra scuola riaprirà un giorno, ma andandomene via guardo l’edificio come se non lo dovessi rivedere mai più.

Giovedì 15 gennaio

BOMBARDAMENTI D’ARTIGLIERIA 
Mi sono svegliata tre volte. Tutta la notte hanno bombardato con l’artiglieria. I talebani colpiscono ripetutamente le scuole nello Swat (il distretto dove vive Malala, ndr).

Oggi ho letto il diario pubblicato sul sito della Bbc. A mia madre piace il mio pseudonimo Gul Makai. Anche a me piace perché il mio vero nome significa addolorata.

Venerdì 16 gennaio 

LA POLIZIA È SPARITA 
Mio padre ci ha detto che il governo proteggerà le scuole, ma la polizia non si vede da nessuna parte. Ogni giorno sentiamo le notizie di soldati uccisi e tanti altri rapiti (molti saranno poi decapitati dai talebani, ndr).

I miei genitori sono molto spaventati.

Lunedì 19 gennaio 

SCUOLE BRUCIATE
 Altre cinque scuole sono state distrutte e una era vicino a casa mia. Nessuno va a lezione dopo l’ultimatum dei talebani.

E l’esercito non fa assolutamente nulla. I soldati se ne stanno chiusi nei bunker sulle colline a sgozzare capretti e mangiare.

Giovedì 22 gennaio

LADRI FRUSTATIAlcuni miei amici se ne sono andati perché la situazione è molto pericolosa. Io resto tappata in casa. Ieri sera maulana Shah Dauran (che aveva vietato le scuole alle ragazze; poi è stato ucciso, ndr) ha intimato ancora una volta alle donne di non uscire. Nel suo discorso alla radio ha anche annunciato che tre ladri verranno frustati l’indomani e chiunque può assistere. Perché, dopo tante sofferenze, la gente va ancora a vedere queste cose? Perché nessuno li ferma?

Sabato 24 gennaio

ERA L’ESPLOSIONE DI UNA BOMBA?
 Il mio fratellino di 5 anni gioca su un prato quando papà gli chiede cosa sta facendo. E lui risponde: “Sto scavando una fossa”.

Più tardi abbiamo preso l’autobus per Bannu. Il veicolo è vecchio. A un certo punto prende una buca e il clacson comincia a suonare. Mio fratello, terrorizzato, chiede alla mamma: “Era l’esplosione di una bomba?”.

Siamo andati al bazar e poi al parco. Le donne indossano un velo che usano quando escono di casa. Lo fa anche mia madre, ma io mi rifiuto di portarlo perché arriva fino a terra e cammino con difficoltà.

Lunedì 26 gennaio

CARAMELLE DAGLI ELICOTTERI 
Mi sono svegliata con il rombo dell’artiglieria pesante. Prima eravamo terrorizzati dal rumore degli elicotteri e adesso dalle cannonate.

Un giorno hanno cominciato a lanciare caramelle dal cielo. Quando arrivano gli elicotteri speriamo sempre che lo rifacciano, ma purtroppo non capita più.

Sabato 31 gennaio 

CHI VENDICHERÀ LE VITTIME?
 Il distretto di Swat è stato duramente colpito dai militanti islamici. Le operazioni militari si intensificano e solo oggi sono state uccise 37 persone.

Ho cambiato canale della tv e vedo una donna che dice: «Ci vendicheremo dell’assassinio di Benazir Bhutto (l’ex premier pachistana uccisa dai terroristi, ndr). Chiedo a mio padre chi vendicherà le centinaia di vittime fra la gente del nostro distretto.

Sabato 7 febbraio

SILENZIO INQUIETANTE
 Siamo partiti per Mingora (la principale città del distretto, ndr) nel pomeriggio. Sono felice di tornare dopo 20 giorni. Prima di entrare in città ci colpisce il silenzio inquietante.

In giro si vedono solo personaggi con barboni e lunghi capelli, che sembrano talebani. Alcune case sono danneggiate dalle granate.

Andiamo al supermercato, ma è chiuso, anche se prima rimaneva aperto fino a tardi. Anche gli altri negozi sono sbarrati.

Domenica 8 febbraio

SOLO I MASCHI TORNANO A SCUOLA 
Guardo la mia uniforme scolastica, lo zaino per i libri, l’astuccio, e mi rattristo. I maschi tornano a scuola domani, invece i talebani hanno vietato l’istruzione alle ragazze.

Mio fratello non ha fatto i compiti e teme di venire punito se va a scuola. La mamma dice che domani ci sarà il coprifuoco e lui si mette a ballare per la gioia.

Giovedì 12 febbraio

ATTACCHI SUICIDI
 La scorsa notte ci sono stati pesanti bombardamenti. Prima che i talebani imponessero delle restrizioni sui canali via cavo guardavo la tv Star Plus. Il mio programma favorito era Raja Kee Aye Gee Barat (Il ragazzo dei miei sogni verrà a sposarmi, ndr). Oggi è giovedì e ho paura. La gente dice che gran parte degli attacchi suicidi avvengono il venerdì mattina o la sera. Dicono anche che gli attentatori scelgono il venerdì, giorno speciale per l’Islam, convinti di compiacere Allah.

Domenica 15 febbraio 

SPARI PER LA PACE  A pranzo cominciano a sparare. Ho paura che arrivino i talebani. Corro fra le braccia di mio padre che mi consola: «Non temere stanno sparando in aria per la pace».

Papà ha letto sul giornale che il governo e i militanti hanno firmato un accordo. Alla sera i talebani ne danno l’annuncio per radio e la sparatoria riparte con maggiore vigore. La gente crede più a loro che al governo. Quando abbiamo sentito l’annuncio mia madre è scoppiata a piangere di gioia e subito dopo anche papà.

360 chili di aragoste e polipi

Siena

E’ stata una notizia che è passata in mezzo allo scandalo MPS: 360 chili di aragoste e polipi, acquistati dall’ateneo Senese, non per la mensa universitaria, ma alla contrada della Chicciola. E ora, per risanare il bilancio,  (circa 200 milioni di buco) le rette sono fra le più alte d’Italia! Questo dato credo rappresenti l’Italia che non c’è, un italia dove tutti pensano di dover saccheggiare il bene ed il danaro pubblico appena si presenta  l’occasione! Un Italia debole che non resiste alla tentazione di allungare la mano o semplicemente aprirla per farvi cadere dentro i soldi pubblici. Dalle aragoste ed i polipi all’università il passo è breve per arrivare a Fiorito a Maruccio ed ai banchetti nunziali pagati con i fondi economali dei gruppi consiliari della Regione Lombardia. La seconda repubblica è peggio della prima che ho vissuto per tutti i primi anni della mia vita. Eppure non sembra vero, il nuovo è sempre peggio del vecchio, sembra quasi un destino ineluttabile. La politica è influenzata da fatti lontani anni luce dall’amministrazione e siccome i politici sono sempre accomunati dalla stessa sorte sento il bisogno di mettere le mani avanti e pubblicare gli statini paga delle somme che ricevo dal Comune per la mia attività istituzionale peraltro documentata in parte su questo blog. Gli importi variano dal numero dei Consigli  Comunali e delle commissioni a cui partecipo: statini paga comune (clikka)

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Scuola di politica e di amministrazione la prima lezione

DSCN0103Ieri (25.01.2013)  la prima lezione della scuola di politica e di amministrazione. Il Prof. Franco Barbagallo ha ripercorso la storia della camorra e della politica nel nostro paese con una lezione avvincente. Il luogo delle istituzioni politiche per tre ore è diventato luogo di riflessione, cultura e formazione dei cittadini. Lo stato della politica è certamente avvilente ma ieri credo che, nel nostro piccolo, abbiamo dimostrato che è possibile un’altra politica, quella della cura dell’interesse pubblico, della alta moralità, dello spirito di servizio e del senso delle istituzione. Una delle tante cose che mi ha colpito della lezione è stata la riflessione sul fatto che da tempo la camorra è vincente perché in essa ci sono uomini di valore superiore ai politici che occupano le istituzioni. Senza mezzi termini credo che questo sia il risultato dell’allontanamento dei cittadini perbene, capaci e competenti dalla politica a causa della incapacità dei partiti, proni all’interesse economico o di gruppi di potere o addirittura incapaci di comprendere quale sia la strada giusta. Ciò che ci aspetta è sicuramente un periodo oscuro e di grande incertezza, le stesse persone che sono oggi nelle liste delle prossime elezioni ne sono la dimostrazione. Gente assolutamente sconosciuta catapultata in parlamento. Oggi, infatti, riflettevo che in questi quasi due anni di consiliatura i candidati che andranno a sedere in parlamento, sulle cose importanti di cui abbiamo trattato nella nostra città (vedi casi romeo, bagnoli, caan, piazza garibaldi etc.) non li ho mai sentiti tranne rare eccezioni (un candidato). Mi chiedo questi illustri sconosciuti chi sono e cosa andranno a fare in parlamento. Persone che la quasi totalità dei cittadini non conosce e quelli che li conoscono per la stragrande maggioranza ne parlano male o storcono il naso. E’ questo il ruolo dei partiti? Quello di mandare in parlamento illustri signorsì pronti a non contraddire il capo? Ciò che ho da tempo compreso e che oggi siamo nelle stesse condizioni di incertezza del dopoguerra, ci sono macerie politiche e morali di una classe dirigente autoreferenziale da cacciare dai palazzi del potere. La nostra funzione forse sarà di testimonianza, ma non ci potranno mai dire che non ci abbiamo provato fino all’ultimo! La prossima lezione è l’8 febbario, alle h. 16, stessa sala multimediale in Via Verdi, su Ambiente e Politica, ce ne parlerà il Prof. Antonio Di Gennaro che conosco per impegno e competenza. Spero sarete presenti nello stesso numero se non di più e di vedere altrettanti giovani. A quest’ultimi, infatti, deve andare il nostro incoraggiamento! Dobbiamo iniziare a pensare che ogni volta che diciamo che la politica fa schifo ed occorre starsene alla lontana facciamo un piacere proprio a quelli che la politica l’hanno ridotta a quello che è! Sursum Corda !!!

 Programma della scuola di politica e di amministrazione

Sotto la foto di Simona Molisso Capogruppo di Ricostruzione Democratica con Diego perché la politica deve avere il tempo della famiglia:

74647_405138009571549_1401710495_nLe riflessioni di Carlo Iannello (clikka)

La politica delle pecore in parlamento

imagesListe fatte all’occorrenza della campagna elettorale con gente che non si conosce e che non ha alcuna formazione né amministrativa né politica e che spesso non ha manco l’idea di cosa si andrà a fare in parlamento. I partiti si ricordano dei cittadini e dell’elettorato attivo solo al momento delle elezioni. Nessun partito, nonostante tutti i milioni che hanno in cassa (sui soldi ai partiti clikka), ha mai seriamente pensato di mettere in piedi una vera e propria scuola di formazione politica/amministrativa ed il motivo credo sia chiaro! I partiti se avviassero corsi di formazione poi si troverebbero dei giovani che in grado di scalzare quelli che stanno davanti. Come al solito tenere nell’ignoranza il popolo serve a governarlo ad uso e consumo di questo o quel gruppo di potere. In Germania, ricordo sempre, un ministro per aver copiato una tesi di dottorato è stato cacciato perché alle sue spalle immagino ci siano tanti altri giovani e meno giovani pronti a prenderne il posto dell’indegno, giovani che scalpitano per mettersi alla prova e per rendere al paese il loro servizio. Ai tanti candidati al parlamento, vecchi e nuovi, mi verrebbe da chiedergli cosa sanno dell’autodichia, cosa sanno di come funzionano le camere, cosa sanno del bicameralismo perfetto, se hanno mai letto una legge e se ci hanno mai capito qualcosa con i tanti rinvii in essa convenuta, cosa sanno della legge finanziaria e del bilancio dello stato, cosa sanno dell’architettura costituzionale del nostro paese …. La verità è che si preferisce l’ignoranza perché così il pastore potrà governare le pecore nei recinti delle assemblee elettive, dicendo loro vota si o vota no, solo che spesso manco il pastore è in grado di capire, perché si debba votare si o perché si debba votare no, perché i si ed i no nascono dai grumi di potere; dai quei poteri forti che tutti dichiarano di voler abbattere ma che poi foraggiano i partiti. La cosa che mi lascia poi perplesso e che spesso le pecore vogliono rimanere pecore, perché quando pure spieghi a queste simpatiche bestiole, nei minimi dettagli il perché si dovrebbe, per l’interesse pubblico, votare diversamente da quello che il “pastore inconsapevole” suggerisce, le pecore anziché ringraziarti per aver aperto loro gli occhi, si incazzano e spesso sono pecore incazzate ed avvilite perché dovranno votare mordendosi la coscienza (se sensibili, ma questo non accade spesso), di dover fare un torto ai cittadini. Ovviamente mi scuso con le pecore che poverine nel gregge fanno il loro mestiere, ma alle pecore purtroppo è aggrappato il nostro destino e sopratutto quello dei nostri figli … Questo post lo dedico a tutte le pecore del mondo delle assemblee elettive …

Se non vogliamo le pecore allora occorre partecipare alla Scuola di politica e di amministrazione (clikka)

La scure del governo sui dipendenti comunali – di questo passo sarà difficile anche sposarsi

images (1)E’ da qualche settimana che registro il malessere dei dipendenti del Comune di Napoli per i tagli dovuti alla adesione al piano di riequilibrio finanziario di cui al decreto legge 174/2012, che costringe gli enti locali a ridurre il salario accessorio e le turnazioni. La questione è seria ed alla fine si riversa, sui cittadini che si vedono negati  i servizi essenziali e sui dipendenti che si vedono dimagrire il loro già magro stipendio. Oggi, infatti, mi sono imbattuto in una situazione  raccapricciante di un cittadino che si è visto rifiutare la celebrazione del rito matrimoniale civile al Maschio Angioino perché non ci sono i dipendenti disponibili a portare di sabato mattina il registro di stato civile dalla sezione municipale. Conseguenza: matrimonio fissato, ricevimento prenotato e tutto sembra incredibilmente difficile, con la possibilità che vada a monte l’intera organizzazione. Di questo passo credo che ai comuni soggetti, alla cura dimagrante, resterà solo il compito di fare i certificati di residenza. Quello che noto, inoltre, è che si sta scatenando di fatto una guerra tra dipendenti del Comune e dipendenti delle partecipate colpevoli, quest’ultimi, di essere stati assunti in maniera assolutamente sovrabbondante e spesso senza procedura selettiva pubblica, con la conseguenza dello sfondamento del patto di stabilità interno. Dalle discussioni spesso emerge che le società partecipate sono state il meccanismo per creare consenso elettorale, argomento sul quale sono molto sensibile e tra l’altro disgustato tanto che, in una occasione, ho chiaramente detto al mio interlocutore in una discussione che, se fosse possibile individuare questi soggetti assunti per motivi elettorali, andrebbero licenziati all’istante ed in massa. La questione è, credo, tutta italiana ed in particolare del mezzogiorno. Imprese municipali messe in piedi senza guardare all’efficacia dei servizi che dovevano rendere alla comunità ed al progetto imprenditoriale, ma solo per creare ad arte posti di lavoro da spendere in campagna elettorale. Tra l’altro il risultato è stato quello di cerare posti di lavoro fasulli perché se un’azienda non si regge perché le spese del personale sono eccessive e non giustificate, alla fine finirà per fallire e, quindi, il posto di lavoro concesso dal politicante di turno finisce per essere assolutamente falso! Cosa fare in questo momento di crisi profonda me lo chiedo spesso e spesso mi rispondo che occorre lavorare insieme ai dipendenti per trovare soluzioni, dando innanzitutto l’esempio. Non si può far valere per gli altri ciò che non vale per noi! Occorre partire dalla classe politica, dagli eletti, che si dovrebbero innanzitutto ridurre le indennità e ridurre al massimo le sacche di sprechi. Al Comune di Napoli si potrebbe fare in modo che le commissioni consiliari si riunissero di pomeriggio (come accade in altre città) con la conseguenza di evitare i rimborsi ai datori di lavoro dei consiglieri che, così, andrebbero a lavorare percependo lo stipendio dai loro datori di lavoro senza aggravio sulle casse del Comune. La Giunta ed al Sindaco si potrebbero ridurre i costi del lavoro degli staffisti. Sono consapevole che queste misure non sarebbero idonee a ridurre il problema ma sono, altresì, sicuro che ciò farebbe sentire tutti nella stessa barca e creerebbe maggiore affidamento determinando uno spirito di squadra. La cultura dell’esempio è quella che con fatica e sforzo immane cerco di praticare da quando ragazzino, vedevo mio Padre autista dell’ATAN andare al lavoro a testa china, tutti i giorni senza mai fare un “giorno di festa”, o da atleta, costretto a scendere di peso, per gareggiare vedevo il mio Maestro digiunare con me mangiando le poche cose che mangiavo io …. ma non voglio credere che quelli erano altri tempi ….

Leggi anche il posto di lavoro e la politica (clikka)

Il Discorso di Thomas Sankara: una lettura che fa bene all’anima…

thomas sankaraThomas Sankara è stato Presidente del Burkina Fasu ebbe il coraggio e l’onore di guidare il suo popolo alla rivolta. Il suo discorso a New York, 4 ottobre 1984, 39ª sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite rappresenta lo spessore di un grande uomo della recente storia africana.

Presidente, Segretario generale, onorevoli rappresentanti della comunità internazionale.

Vi porto i saluti fraterni di un paese di 274.000 chilometri quadrati in cui sette milioni di bambini, donne e uomini si rifiutano di morire di ignoranza, di fame e di sete, non riuscendo più a vivere nonostante abbiano alle spalle un quarto di secolo di esistenza come stato sovrano rappresentato alle Nazioni Unite.

Sono davanti a voi in nome di un popolo che ha deciso, sul suolo dei propri antenati, di affermare, d’ora in avanti, se stesso e farsi carico della propria storia – negli aspetti positivi quanto in quelli negativi – senza la minima esitazione.

Sono qui, infine, su mandato del Consiglio nazionale della rivoluzione (Cnr) del Burkina Faso, per esprimere il suo punto di vista sui problemi iscritti all’ordine del giorno, che costituiscono una tragica ragnatela di eventi che scuotono dolorosamente le fondamenta del nostro mondo alla fine di questo millennio. Un mondo dove l’umanità è trasformata in circo, lacerata da lotte fra i grandi e i meno grandi, attaccata da bande armate e sottoposta a violenze e saccheggi. Un mondo dove le nazioni agiscono sottraendosi alla giurisdizione internazionale, armando gruppi di banditi che vivono di ruberie e di altri sordidi traffici.

Non pretendo qui di affermare dottrine. Non sono un messia né un profeta; non posseggo verità. I miei obiettivi sono due: in primo luogo, parlare in nome del mio popolo, il popolo del Burkina Faso, con parole semplici, con il linguaggio dei fatti e della chiarezza; e poi, arrivare ad esprimere, a modo mio, la parola del “grande popolo dei diseredati”, di coloro che appartengono a quel mondo che viene sprezzantemente chiamato Terzo mondo. E dire, anche se non riesco a farle comprendere, le ragioni della nostra rivolta. È chiaro il nostro interesse per le Nazioni Unite, ed è nostro diritto essere qui con il vigore e il rigore derivanti dalla chiara consapevolezza dei nostri compiti.

Nessuno sarà sorpreso di vederci associare l’ex Alto Volta – oggi Burkina Faso – con questo insieme così denigrato che viene chiamato Terzo mondo, una parola inventata dal resto del mondo al momento dell’indipendenza formale per assicurarsi meglio l’alienazione sulla nostra vita intellettuale, culturale, economica e politica.

Noi vogliamo inserirci nel mondo senza giustificare comunque questo inganno della storia, né accettiamo lo status di “entroterra del sazio Occidente”. Affermiamo la nostra consapevolezza di appartenere a un insieme tricontinentale, ci riconosciamo come paese non allineato e siamo profondamente convinti che una solidarietà speciale unisca i tre continenti, Asia, America Latina ed Africa in una lotta contro gli stessi banditi politici e gli stessi sfruttatori economici.

Riconoscendoci parte del Terzo mondo vuol dire, parafrasando José Martí, “affermare che sentiamo sulla nostra guancia ogni schiaffo inflitto contro ciascun essere umano ovunque nel mondo”. Finora abbiamo porto l’altra guancia, gli schiaffi sono stati raddoppiati. Ma il cuore del cattivo non si è ammorbidito. Hanno calpestato le verità del giusto. Hanno tradito la parola di Cristo e trasformato la sua croce in mazza. Si sono rivestiti della sua tunica e poi hanno fatto a pezzi i nostri corpi e le nostre anime. Hanno oscurato il suo messaggio. L’hanno occidentalizzato, mentre per noi aveva un significato di liberazione universale. Ebbene, i nostri occhi si sono aperti alla lotta di classe, non riceveremo più schiaffi.

Non c’è salvezza per il nostro popolo se non voltiamo completamente le spalle a tutti i modelli che ciarlatani di tutti i tipi hanno cercato di venderci per vent’anni. Non ci sarà salvezza per noi al di fuori da questo rifiuto, né sviluppo fuori da una tale rottura. Tutti quei nuovi “intellettuali” emersi dal loro sonno – risvegliati dalla sollevazione di miliardi di uomini coperti di stracci, atterriti dalla minaccia di questa moltitudine guidata dalla fame che pesa sulla loro digestione – iniziano a riscrivere i propri discorsi, e ancora una volta ansiosamente cercano concetti miracolosi e nuove forme di sviluppo per i nostri paesi. Basta leggere i numerosi atti di innumerevoli forum e seminari per rendersene conto.

Non voglio certo ridicolizzare i pazienti sforzi di intellettuali onesti che, avendo gli occhi per vedere, scoprono le terribili conseguenze delle devastazioni che ci hanno imposto i cosiddetti “specialisti” dello sviluppo del Terzo mondo. Il mio timore è che i frutti di tanta energia siano confiscati dai Prospero di tutti i tipi che – con un giro della loro bacchetta magica – ci rimandano in un mondo di schiavitù in abiti moderni.

Questo mio timore è tanto più giustificato in quanto l’istruita piccola borghesia africana – se non quella di tutto il Terzo mondo – non è pronta a lasciare i propri privilegi, per pigrizia intellettuale o semplicemente perché ha assaggiato lo stile di vita occidentale. Così, questi nostri piccolo borghesi dimenticano che ogni vera lotta politica richiede un rigoroso dibattito, e rifiutano lo sforzo intellettuale per inventare concetti nuovi che siano all’altezza degli assalti assassini che ci attendono. Consumatori passivi e patetici, essi sguazzano nella terminologia che l’Occidente ha reso un feticcio, proprio come sguazzano nel whisky e nello champagne occidentali in salotti dalle luci soffuse.

Dopo i concetti di negritudine o di personalità africana, segnati ormai dal tempo, risulta vana la ricerca di idee veramente nuove prodotte dai cervelli dei nostri “grandi” intellettuali. Il nostro vocabolario e le nostre idee hanno un’altra provenienza. I nostri professori, i nostri ingegneri ed economisti si accontentano di aggiungervi semplicemente un po’ di colore – perché spesso le sole cose che si sono riportati indietro dalle università europee sono le lauree e i loro eleganti aggettivi e superlativi!

È al tempo stesso necessario e urgente che i nostri esperti e chi lavora con la penna imparino che non esiste uno scrivere neutro. In questi tempi burrascosi non possiamo lasciare ai nemici di ieri e di oggi alcun monopolio sul pensiero, sull’immaginazione e sulla creatività. Prima che sia troppo tardi – ed è già tardi – questa élite, questi uomini dell’Africa, del Terzo mondo, devono tornare a casa davvero, cioè tornare alla loro società e alla miseria che abbiamo ereditato, per comprendere non solo che la lotta per un’ideologia al servizio dei bisogni delle masse diseredate non è vana, ma che possono diventare credibili a livello internazionale solo divenendo autenticamente creativi, ritraendo un’immagine veritiera dei propri popoli. Un’immagine che gli permetta di realizzare dei cambiamenti profondi delle condizioni politiche e sociali e che strappi i nostri paesi dal dominio e dallo sfruttamento stranieri che lasciano i nostri stati nella bancarotta come unica prospettiva.

È questo che noi, popolo burkinabé, abbiamo capito la notte del 4 agosto 1983, quando le prime stelle hanno iniziato a scintillare nel cielo della nostra terra. Abbiamo dovuto guidare la rivolta dei contadini che vivevano piegati in due in una campagna insidiata dal deserto che avanza, abbandonata e stremata dalla sete e dalla fame. Abbiamo dovuto indirizzare la rivolta delle masse urbane prive di lavoro, frustrate e stanche di vedere le limousine guidate da élite governative estraniate che offrivano loro solo false soluzioni concepite da cervelli altrui. Abbiamo dovuto dare un’anima ideologica alle giuste lotte delle masse popolari che si mobilitavano contro il mostro dell’imperialismo. Abbiamo dovuto sostituire per sempre i brevi fuochi della rivolta con la rivoluzione, lotta permanente ad ogni forma di dominazione.

Prima di me, altri hanno spiegato, e senza dubbio altri spiegheranno ancora, quanto è cresciuto l’abisso fra i popoli ricchi e quelli la cui prima aspirazione è saziare la propria fame e calmare la propria sete, e sopravvivere seguendo e conservando la propria dignità. Ma è al di là di ogni immaginazione la quantità di “derrate dei poveri che sono andate a nutrire il bestiame dei nostri ricchi!”

Lo stato che era chiamato Alto Volta è stato uno degli esempi più lampanti di questo processo. Eravamo l’incredibile concentrato, l’essenza di tutte le tragedie che da sempre colpiscono i cosiddetti paesi in via di sviluppo. Lo testimonia in modo eloquente l’esempio dell’aiuto estero, tanto sbandierato e presentato, a torto, come la panacea. Pochi paesi sono stati inondati come il Burkina Faso da ogni immaginabile forma di aiuto. Teoricamente, si suppone che la cooperazione debba lavorare in favore del nostro sviluppo. Nel caso dell’Alto Volta, potevate cercare a lungo e invano una traccia di qualunque cosa si potesse chiamare sviluppo. Chi è al potere, per ingenuità o per egoismo di classe non ha potuto o voluto controllare questo afflusso dall’esterno, e orientarlo in modo da rispondere alle esigenze del nostro popolo.

Analizzando una tabella pubblicata nel 1983 dal Club del Sahel, con notevole buon senso Jacques Giri concludeva nel suo libro “Il Sahel domani” che, per i suoi contenuti e i meccanismi che ne reggono il funzionamento, l’aiuto al Sahel era un aiuto alla mera sopravvivenza. Solo il 30%, sottolinea Giri, di questo aiuto permette al Sahel di vivere. Secondo Giri, il solo obiettivo dell’aiuto estero è continuare a sviluppare settori non produttivi, imporre pesi insopportabili ai nostri magri bilanci, disorganizzare le campagne, aumentare il deficit della nostra bilancia commerciale, accelerare il nostro indebitamento.

Pochi dati bastano a descrivere l’ex Alto Volta. Un paese di sette milioni di abitanti, più di sei milioni dei quali sono contadini; un tasso di mortalità infantile stimato al 180 per mille; un’aspettativa di vita media di soli 40 anni; un tasso di analfabetismo del 98%, se definiamo alfabetizzato colui che sa leggere, scrivere e parlare una lingua; un medico ogni 50.000 abitanti; un tasso di frequenza scolastica del 16%; infine un prodotto interno lordo pro capite di 53.356 franchi CFA, cioè poco più di 100 dollari per abitante. La diagnosi era cupa ai nostri occhi. La causa della malattia era politica. Solo politica poteva dunque essere la cura. Naturalmente incoraggiamo l’aiuto che ci aiuta a superare la necessità di aiuti. Ma in generale, la politica dell’aiuto e dell’assistenza internazionale non ha prodotto altro che disorganizzazione e schiavitù permanente, e ci ha derubati del senso di responsabilità per il nostro territorio economico, politico e culturale.

Abbiamo scelto di rischiare nuove vie per giungere ad una maggiore felicità. Abbiamo scelto di applicare nuove tecniche e stiamo cercando forme organizzative più adatte alla nostra civiltà, respingendo duramente e definitivamente ogni forma di diktat esterno, al fine di creare le condizioni per una dignità pari al nostro valore. Respingere l’idea di una mera sopravvivenza e alleviare le pressioni insostenibili; liberare le campagne dalla paralisi e dalla regressione feudale; democratizzare la nostra società, aprire le nostre anime ad un universo di responsabilità collettiva, per osare inventare l’avvenire. Smontare l’apparato amministrativo per ricostruire una nuova immagine di dipendente statale; fondere il nostro esercito con il popolo attraverso il lavoro produttivo avendo ben presente che senza un’educazione politica patriottica, un militare non è nient’altro che un potenziale criminale. Questo è il nostro programma politico.

Dal punto di vista della pianificazione economica, stiamo imparando a vivere con modestia e siamo pronti ad affrontare quell’austerità che ci siamo imposti per poter sostenere i nostri ambiziosi progetti. Già ora, grazie a un fondo di solidarietà nazionale alimentato da contributi volontari, stiamo cominciando a trovare risposte all’enorme problema della siccità. Abbiamo sostenuto ed applicato i principi di Alma Ata aumentando il nostro livello dei servizi sanitari di base. Abbiamo fatto nostra come politica di stato la strategia del GOBI FFF consigliata dall’UNICEF; pensiamo che le Nazioni Unite dovrebbero utilizzare il proprio ufficio nel Sahel per elaborare piani a medio e lungo termine che permettano ai paesi che soffrono per la siccità di raggiungere l’autosufficienza alimentare.

In vista del XXI secolo abbiamo lanciato una grande campagna per l’educazione e la formazione dei nostri bambini in un nuovo tipo di scuola, finanziato da una sezione speciale della nostra lotteria nazionale “istruiamo i nostri bambini”. E, grazie al lavoro dei Comitati per la difesa della rivoluzione, abbiamo lanciato un vasto progetto di costruzione di case pubbliche (500 in cinque mesi), strade, piccoli bacini idrici ecc. Il nostro obiettivo economico è creare una situazione in cui ogni burkinabé possa impiegare le proprie braccia ed il proprio cervello per produrre abbastanza da garantirsi almeno due pasti al giorno ed acqua potabile.

Promettiamo solennemente che d’ora in avanti nulla in Burkina Faso sarà portato avanti senza la partecipazione dei burkinabé. D’ora in avanti, saremo tutti noi a ideare e decidere tutto. Non permetteremo altri attentati al nostro pudore e alla nostra dignità.

Rafforzati da questa convinzione, vorremmo abbracciare con le nostre parole tutti quelli che soffrono e la cui dignità è calpestata da un pugno di uomini o da un sistema oppressivo.

Chi mi ascolta mi permetta di dire che parlo non solo in nome del mio Burkina Faso, tanto amato, ma anche di tutti coloro che soffrono in ogni angolo del mondo. Parlo in nome dei milioni di esseri umani che vivono nei ghetti perché hanno la pelle nera o perché sono di culture diverse, considerati poco più che animali. Soffro in nome degli Indiani d’America che sono stati massacrati, schiacciati, umiliati e confinati per secoli in riserve così che non potessero aspirare ad alcun diritto e la loro cultura non potesse arricchirsi con una benefica unione con le altre, inclusa quella dell’invasore. Parlo in nome di quanti hanno perso il lavoro, in un sistema che è strutturalmente ingiusto e congiunturalmente in crisi, ridotti a percepire della vita solo il riflesso di quella dei più abbienti.

Parlo in nome delle donne del mondo intero, che soffrono sotto un sistema maschilista che le sfrutta. Per quel che ci riguarda siano benvenuti tutti i suggerimenti, di qualunque parte del mondo, circa i modi per favorire il pieno sviluppo della donna burkinabé. In cambio, possiamo condividere con tutti gli altri paesi la nostra esperienza positiva realizzata con le donne ormai presenti ad ogni livello dell’apparato statale e in tutti gli aspetti della vita sociale burkinabé. Le donne in lotta proclamano all’unisono con noi che lo schiavo che non organizza la propria ribellione non merita compassione per la sua sorte. Questo schiavo è responsabile della sua sfortuna se nutre qualche illusione quando il padrone gli promette libertà. La libertà può essere conquistata solo con la lotta e noi chiamiamo tutte le nostre sorelle di tutte le razze a sollevarsi e a lottare per conquistare i loro diritti.

Parlo in nome delle madri dei nostri paesi impoveriti che vedono i loro bambini morire di malaria o di diarrea e che ignorano che esistono per salvarli dei mezzi semplici che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo piuttosto investire nei laboratori cosmetici, nella chirurgia estetica a beneficio dei capricci di pochi uomini e donne il cui fascino è minacciato dagli eccessi di calorie nei pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel. Questi mezzi semplici raccomandati dall’OMS e dall’UNICEF abbiamo deciso di adottarli e diffonderli.

Parlo, anche, in nome dei bambini. Di quel figlio di poveri che ha fame e guarda furtivo l’abbondanza accumulata in una bottega dei ricchi. Il negozio è protetto da una finestra di spesso vetro; la finestra è protetta da inferriate; queste sono custodite da una guardia con elmetto, guanti e manganello, messa là dal padre di un altro bambino che può, lui, venire a servirsi, o piuttosto, essere servito, giusto perché ha credenziali garantite dalle regole del sistema capitalistico.

Parlo in nome degli artisti – poeti, pittori, scultori, musicisti, attori – che vedono la propria arte prostituita per le alchimie dei businessman dello spettacolo. Grido in nome dei giornalisti ridotti sia al silenzio che alla menzogna per sfuggire alla dura legge della disoccupazione. Protesto in nome degli atleti di tutto il mondo i cui muscoli sono sfruttati dai sistemi politici o dai moderni mercanti di schiavi.

Il mio paese è la quintessenza di tutte le disgrazie dei popoli, una sintesi dolorosa di tutte le sofferenze dell’umanità, ma anche e soprattutto una sintesi delle speranze derivanti dalla nostra lotta. Ecco perché ci sentiamo una sola persona con i malati che scrutano ansiosamente l’orizzonte di una scienza monopolizzata dai mercanti d’armi. Il mio pensiero va a tutti coloro che sono colpiti dalla distruzione della natura e ai trenta milioni di persone che muoiono ogni anno abbattute da quella terribile arma chiamata fame.

Come militare non posso dimenticare il soldato che obbedisce agli ordini che, con il dito sul grilletto, sa che la pallottola che sta per partire porta solo un messaggio di morte. Parlo con indignazione a nome dei palestinesi, che un’umanità disumana ha scelto di sostituire con un altro popolo, solo ieri martirizzato. Il mio pensiero va al valoroso popolo palestinese, alle famiglie frantumate che vagano per il mondo in cerca di asilo. Coraggiosi, determinati, stoici e instancabili, i palestinesi ricordano alla coscienza umana la necessità e l’obbligo morale di rispettare i diritti di un popolo: i palestinesi, con i loro fratelli ebrei, si oppongono al sionismo.

Sono al fianco dei miei fratelli soldati dell’Iran e dell’Iraq che muoiono in una guerra fratricida e suicida, come sono vicino ai compagni del Nicaragua, i cui porti minati e i villaggi bombardati affrontano il loro destino con tanto coraggio e lucidità. Soffro con tutti i latinoamericani che faticano e lottano sotto i predatori dell’imperialismo. Sono a fianco dei popoli dell’Afghanistan e dell’Irlanda, di Grenada e di Timor Est, tutti alla ricerca di una serenità ispirata dalla loro dignità e dalle leggi della propria cultura. Parlo qui in nome di tutti coloro che cercano invano una tribuna davvero mondiale dove far sentire la propria voce ed essere presi in considerazione realmente.

Molti mi hanno preceduto su questo palco e altri seguiranno. Però solo alcuni prenderanno le decisioni. Eppure, qui ufficialmente siamo tutti uguali.

Bene, mi faccio portavoce di tutti coloro che invano cercano un’arena dalla quale essere ascoltati. Sì, vorrei parlare in nome di tutti gli “abbandonati del mondo”, perché sono un uomo e niente di quello che è umano mi è estraneo. La nostra rivoluzione in Burkina Faso abbraccia le sfortune di tutti i popoli; vuole ispirarsi alla totalità delle esperienze umane dall’inizio del mondo. Vogliamo essere gli eredi di tutte le rivoluzioni del mondo e di tutte le lotte di liberazione dei popoli del Terzo mondo. I nostri occhi guardano ai profondi sconvolgimenti che hanno trasformato il mondo. Traiamo insegnamenti dalla rivoluzione americana, le lezioni della sua vittoria contro la dominazione coloniale e le conseguenze della sua vittoria. Facciamo nostra la dottrina della non ingerenza degli europei negli affari americani e degli americani negli affari europei. Ciò che Monroe proclamava nel 1823 “l’America agli Americani”, oggi viene da noi ripreso affermando “l’Africa agli Africani” e “il Burkina Faso ai Burkinabé”. La rivoluzione francese del 1789, distruggendo le basi dell’assolutismo, ci ha insegnato l’intimo legame che esiste fra diritti umani e diritti dei popoli alla libertà. La grande rivoluzione d’ottobre del 1917 ha trasformato il mondo, portato il proletariato alla vittoria, scosso le fondamenta del capitalismo e realizzato i sogni di giustizia della comune di Parigi.

Aperti a tutti i venti di volontà dei popoli e delle loro rivoluzioni, ad avendo appreso anche la lezione di alcuni terribili fallimenti che hanno portato a tragiche violazioni dei diritti umani, vogliamo prendere da ogni rivoluzione solo il suo nocciolo di purezza che ci impedisce di diventare schiavi della realtà di altri, anche quando, dal punto di vista ideologico, ci ritroviamo con interessi comuni.

Signor presidente, questo inganno non è più possibile. Il nuovo ordine economico mondiale per cui stiamo lottando e continueremo a lottare può essere raggiunto solo se saremo capaci di fare a pezzi il vecchio ordine che ci ignora; se occuperemo il posto che ci spetta nell’organizzazione politica internazionale e se, data la nostra importanza nel mondo, otterremo il diritto di essere parte delle discussioni e delle decisioni che riguardano i meccanismi regolatori del commercio, dell’economia e del sistema monetario su scala mondiale. Il nuovo ordine economico internazionale non può che affiancarsi a tutti gli altri diritti dei popoli, – diritto all’indipendenza, all’autodeterminazione nelle forme e strutture di governo – come il diritto allo sviluppo. Come tutti gli altri diritti dei popoli può essere conquistato solo nella lotta e attraverso la lotta dei popoli. Non sarà mai il risultato di un atto di generosità di qualche grande potenza.

Continuo a nutrire un’incrollabile fiducia – condivisa dalla grande comunità dei paesi non allineati – che sotto le grida di dolore dei nostri popoli, il nostro gruppo manterrà la sua coesione, rafforzerà il suo potere di negoziazione collettivo, troverà alleati fra tutte le nazioni, e insieme a quelli che ci possono ascoltare, inizierà ad organizzare un sistema di relazioni economiche internazionali realmente nuovo.

Signor Presidente, ho accettato di parlare in questa illustre assemblea perché, malgrado tutte le critiche che le sono rivolte da alcuni dei membri più importanti, le Nazioni Unite rimangono un forum ideale per le nostre richieste, un luogo indispensabile di legittimità per tutti i paesi senza voce.

È questo giustamente ciò che il Segretario Generale dell’Onu vuole significare quando scrive: “L’organizzazione delle Nazioni Unite è unica nel senso che riflette le aspirazioni e le frustrazioni di numerosi paesi e raggruppamenti in tutto il mondo. Uno dei maggiori meriti dell’Onu è che tutte le nazioni, incluse quelle oppresse e vittime dell’ingiustizia” – sta parlando di noi – “anche quando devono fronteggiare la dura realtà del potere, possono venire e trovare una tribuna dove essere ascoltati. Una giusta causa può anche incontrare opposizione o indifferenza, ma troverà comunque una eco presso le Nazioni Unite; tale caratteristica non è sempre stata apprezzata, tuttavia è fondamentale”. Non ci può essere migliore definizione del senso e del significato della nostra organizzazione.

C’è quindi la necessità urgente che ciascuno di noi lavori per consolidare le fondamenta dell’Onu e per attribuirgli i mezzi necessari all’azione. Adottiamo quindi le proposte fatte dal Segretario generale perché possiamo aiutare la nostra organizzazione a superare i numerosi ostacoli che i grandi poteri le oppongono con tanta solerzia per screditarla agli occhi dell’opinione pubblica.

Signor presidente, riconosciuti i meriti, benché limitati, della nostra organizzazione, non posso che essere lieto dell’arrivo di nuovi membri. La delegazione burkinabé dà quindi il benvenuto al 159° membro della nostra organizzazione, lo stato del Brunei Darussalam. A causa della follia di coloro che, per la stravaganza del destino, hanno in mano la leadership del mondo, il Movimento dei non allineati – di cui, mi auguro, il Brunei Darussalam farà presto parte – ha l’obbligo di considerare la lotta per il disarmo un obiettivo permanente, come presupposto essenziale del nostro diritto allo sviluppo.

A nostro parere, dobbiamo analizzare con cura tutti gli elementi che hanno portato alle calamità che hanno afflitto il mondo. In questo senso, il presidente Fidel Castro esprimeva in modo mirabile il nostro punto di vista quando, nel 1979, all’apertura del Sesto summit dei non allineati, dichiarava: “Trecento miliardi di dollari sono sufficienti a costruire 600.000 scuole all’anno per 400 milioni di bambini; oppure 60 milioni di case confortevoli per 300 milioni di persone; oppure 30.000 ospedali con 18 milioni di letti; oppure 20.000 fabbriche che possono dare lavoro a 20 milioni di lavoratori; oppure a rendere possibile l’irrigazione di 150 milioni di ettari di terra che, con adeguate scelte tecniche, possono produrre cibo per un miliardo di persone…”. Se moltiplichiamo queste cifre per dieci – e sono sicuro che rimarremmo al di sotto della realtà di spesa odierna – ci rendiamo conto di quanto l’umanità sperperi ogni anno nel settore militare a scapito della pace.

Ecco perché l’indignazione delle masse si trasforma rapidamente in rivolta e in rivoluzione contro le briciole che vengono loro gettate sotto la forma insultante degli “aiuti”, aiuti spesso legati a condizioni francamente spregevoli. Si può comprendere infine perché il nostro impegno per lo sviluppo ci chiede di essere dei combattenti per la pace, sempre.

Promettiamo dunque di lottare per sciogliere le tensioni e introdurre nelle relazioni internazionali principi degni di un modo di vivere civile, estendendoli a tutte le regioni del mondo. Ciò significa che non possiamo continuare a vendere passivamente parole. Riaffermiamo la nostra determinazione ad essere proponenti attivi di pace, ad assumere il nostro posto nella lotta per il disarmo, e infine ad agire come fattori decisivi nella politica internazionale, liberi dal controllo delle superpotenze, qualunque piano esse possano avere.

La ricerca della pace va di pari passo con la realizzazione dei diritti dei paesi all’indipendenza, dei popoli alla libertà e delle nazioni all’autodeterminazione. In questo senso il premio più miserabile e terribile – sì, terribile – va assegnato al Medio Oriente, in termini di arroganza, insolenza e incredibile ostinazione, ad un piccolo paese, Israele, che da più di venti anni con l’inqualificabile complicità della sua potenza protettrice, gli Stati Uniti, continua a sfidare la comunità internazionale. Beffa della storia, che solo ieri consegnava gli ebrei all’orrore delle camere a gas, Israele infligge ora agli altri la sofferenza che ieri fu sua. Israele, il cui popolo amiamo per il suo coraggio e i sacrifici del passato, deve sapere che le condizioni della propria tranquillità non possono essere raggiunte con la forza delle armi finanziate dall’estero. Israele deve imparare a diventare una nazione come le altre e con le altre. Oggi, da questo podio, affermiamo la nostra solidarietà attiva e militante con gli uomini e le donne dello splendido combattivo popolo palestinese, e ci rincuoriamo sapendo che nessuna sofferenza dura per sempre.

Signor Presidente, quanto alla situazione politica ed economica dell’Africa, nutriamo una profonda preoccupazione per le pericolose sfide che vengono lanciate ai diritti dei nostri popoli, da parte di alcuni paesi che, sicuri delle proprie alleanze, si fanno beffe dell’etica internazionale. Naturalmente, abbiamo il diritto di rallegrarci per la decisione di ritirare le truppe straniere dal Ciad affinché gli abitanti di questo paese, liberi da ingerenze esterne, possano cercare tra loro nuove vie per porre fine a questa guerra fratricida e, dare al popolo che piange da molte stagioni, i mezzi per asciugarsi le lacrime.

Tuttavia, malgrado alcuni progressi registrati dai popoli africani nelle lotte all’emancipazione economica, il nostro continente continua a riflettere la realtà essenziale delle contraddizioni tra le superpotenze, a portare il peso delle intollerabili e apparentemente infinite tribolazioni del mondo contemporaneo. Riteniamo inaccettabile e condanniamo incondizionatamente il destino dispensato al popolo del Sahara occidentale dal regno del Marocco che ricorre a tattiche dilatorie per rinviare il momento inevitabile della restituzione, che il volere del popolo Saharawi imporrà. Dopo aver visitato personalmente le regioni liberate dai Saharawi, mi è chiaro che nulla potrà impedire il cammino verso la liberazione totale del paese sotto la guida militante e lungimirante del Fronte Polisario.

Signor Presidente, non parlerò a lungo della questione di Mayotte e delle isole dell’arcipelago Malagasy (Madagascar). Quando le cose sono ovvie, e quando i principi sono chiari, non c’è bisogno di elaborarli. Mayotte appartiene alle Isole Comore; le isole dell’arcipelago al Madagascar.

In America Latina, salutiamo l’iniziativa del gruppo di Contadora che costituisce un passo positivo nella ricerca di una giusta soluzione per una situazione esplosiva. Il comandante Daniel Ortega, a nome del popolo rivoluzionario del Nicaragua, ha fatto qui proposte concrete ed ha posto questioni di fondo a chi di dovere. Aspettiamo di vedere la pace nel suo paese e in tutta l’America centrale il prossimo 15 ottobre e dopo il 15 ottobre, e prendiamo l’opinione pubblica mondiale a testimone di ciò.

Come abbiamo condannato l’aggressione straniera nell’isola di Grenada, condanniamo tutte le invasioni; ecco perché non possiamo tacere di fronte all’invasione armata dell’Afghanistan.

C’è una questione particolare di una tale gravità da richiedere a ognuno di noi una posizione franca e ferma. Si tratta, potete immaginarlo, del Sudafrica. L’incredibile insolenza che questo paese ha per tutte le nazioni del mondo, incluse quelle che sostengono il suo sistema terroristico volto a liquidare fisicamente la maggioranza nera di questo paese, e il disprezzo con cui accoglie tutte le risoluzioni dell’Assemblea generale costituiscono una delle preoccupazioni maggiori del mondo contemporaneo.

Ma la cosa più tragica non è che il Sudafrica sia accusato dall’intera comunità internazionale per le sue leggi apartheid, né che continui illegalmente a tenere la Namibia sotto il suo stivale colonialista e razzista, o che sottometta impunemente i suoi vicini alla legge del banditismo. No, la cosa più deprecabile e umiliante per la coscienza umana è che sia divenuta una “banalità” la miseria di milioni di esseri umani che per difendersi non hanno altro che il loro petto e l’eroismo delle loro mani nude. Certa di poter contare sulla complicità delle grandi potenze, sul coinvolgimento attivo di alcune di queste e sulla collaborazione di qualche triste leader africano, la minoranza bianca non si vergogna a deridere i sentimenti dei popoli che nel mondo ritengono intollerabile la crudeltà che ha corso legale in Sudafrica.

Un tempo si sarebbero formate brigate internazionali per difendere l’onore delle nazioni la cui dignità era minacciata. Oggi, malgrado le ferite purulente che tutti abbiamo sopportato, votiamo risoluzioni che hanno come unico potere, ci viene detto, di portare alla ragione un Paese di pirati che “distrugge il sorriso come la grandine abbatte i fiori”.

Signor presidente, presto ricorrerà il 150° anniversario dell’emancipazione degli schiavi dell’impero britannico. La mia delegazione sostiene la proposta avanzata da Antigua e Barbuda di commemorare con solennità questo evento così importante per i paesi africani e per tutti i neri. A nostro avviso, tutto quello che potrà essere fatto, detto e organizzato nel corso delle cerimonie commemorative dovrebbe sottolineare il terribile prezzo pagato dall’Africa e dagli africani allo sviluppo della civiltà umana. Un prezzo pagato senza ricevere nulla in cambio e che spiega senza alcun dubbio la tragedia attualmente in corso nel nostro continente. È il nostro sangue che ha nutrito le radici del capitalismo, provocando la nostra attuale dipendenza e consolidando il nostro sottosviluppo. La verità non può più essere nascosta da cifre addomesticate. Dei neri deportati nelle piantagioni, molti sono morti o sono rimasti mutilati. Per non parlare della devastazione cui è stato sottoposto il nostro continente e delle sue conseguenze.

Signor presidente, se il mondo, grazie a Lei e al nostro Segretariato generale, si convincerà, in occasione di questo anniversario, di tale verità, comprenderà poi perché, con tutti noi stessi, vogliamo la pace fra le nazioni e perché sosteniamo e proclamiamo il nostro diritto allo sviluppo nell’uguaglianza assoluta attraverso l’organizzazione e la ridistribuzione delle risorse umane.

Dal momento che tra tutte le razze umane apparteniamo a quelle che hanno sofferto di più, noi burkinabé abbiamo giurato di non accettare d’ora in avanti la più piccola ingiustizia nel più piccolo angolo del mondo. È il ricordo della nostra sofferenza che ci pone vicino all’OLP contro le bande armate israeliane, che ci fa sostenere l’African National Congress (ANC) e la South West Africa People’s Organization (SWAPO), ritenendo intollerabile la presenza sul suolo sudafricano di uomini “bianchi” che distruggono il mondo in nome del loro colore. Infine, è sempre questo ricordo che ci fa riporre nell’Organizzazione delle Nazioni Unite una fiducia profonda in un dovere comune, in un compito comune per una comune speranza.

Chiediamo di intensificare la campagna per la liberazione di Nelson Mandela affinché possa essere qui con noi nella prossima sessione dell’Assemblea generale, testimone del trionfo della nostra dignità collettiva. Chiediamo che, in ricordo delle nostre sofferenze e nel segno del perdono collettivo, sia creato un Premio internazionale della riconciliazione umana, da assegnare a chi contribuirà alla difesa dei diritti umani. Proponiamo che il budget destinato alle ricerche spaziali sia tagliato dell’1%, per devolvere la cifra corrispondente alla ricerca sulla salute e al ripristino dell’ambiente umano perturbato da tutti questi fuochi d’artificio nocivi all’ecosistema.

Proponiamo anche di rivedere tutta la struttura delle Nazioni Unite per porre fine allo scandalo costituito dal diritto di veto. È vero che certi effetti più diabolici del suo abuso sono stati controbilanciati dalla vigilanza di alcuni fra gli stati che detengono il veto. Tuttavia, nulla può giustificare un tale diritto, né le dimensioni di un paese né la sua ricchezza.

Alcuni difendono tale iniquità sostenendo che essa si giustifica con il prezzo pagato durante la Seconda guerra mondiale. Ma sappiano, questi paesi, che anche noi abbiamo avuto uno zio o un padre che, come migliaia di altri innocenti, sono stati strappati dal Terzo mondo e inviati a difendere i diritti calpestati dalle orde di Hitler. Anche la nostra carne porta i solchi delle pallottole naziste. Mettiamo fine all’arroganza delle grandi potenze che non perdono occasione per rimettere in questione i diritti degli altri popoli. L’assenza dell’Africa dal club di quelli che hanno il diritto di veto è ingiusta e deve finire.

La mia delegazione non avrebbe assolto al suo compito se non avesse chiesto la sospensione di Israele e l’espulsione del Sudafrica dalle Nazioni Unite. Quando, con il tempo, questi paesi avranno compiuto le trasformazioni necessarie a renderli ammissibili nella comunità internazionale, ognuno di noi, e il mio paese per primo, darà loro il benvenuto e guiderà i loro primi passi.

Vogliamo riaffermare la nostra fiducia nelle Nazioni Unite. Siamo loro grati per il lavoro compiuto dalle loro agenzie in Burkina Faso e per la loro presenza al nostro fianco mentre stiamo attraversando tempi difficili. Siamo anche grati ai membri del Consiglio di Sicurezza per averci concesso di presiedere il lavoro del Consiglio per due volte quest’anno. Possiamo solo augurarci che questo Consiglio adotterà e applicherà il principio della lotta contro lo sterminio per fame di 30 milioni di esseri umani ogni anno, una distruzione maggiore di quella di una guerra nucleare.

La mia fiducia in questa organizzazione mi porta a ringraziare il Segretario generale Xavier Pérez de Cuellar, per la sua visita in Burkina, durante la quale ha potuto toccare con mano la dura realtà della nostra esistenza, e farsi un quadro fedele dell’aridità del Sahel e della tragedia del deserto che avanza. Non potrei terminare senza rendere omaggio alle eccellenti qualità del nostro presidente (Paul Lusaka dello Zambia) capace di condurre questa 39ª sessione con la saggezza che gli riconosciamo.

Signor presidente, ho viaggiato per migliaia di chilometri. Sono venuto qui per chiedere a ciascuno di voi di unirvi in uno sforzo comune perché abbia fine l’arroganza di chi ha torto, svanisca il triste spettacolo dei bambini che muoiono di fame, sia spazzata via l’ignoranza, vinca la legittima rivolta dei popoli, e tacciano finalmente i suoni di guerra, e che infine si lotti con una volontà comune per la sopravvivenza dell’umanità. Cantiamo insieme con il grande poeta Novalis: “Presto le stelle ritorneranno a visitare la terra che lasciarono durante l’era dell’oscurità; il sole depositerà il suo spettro severo e tornerà ad essere una stella fra le stelle, tutte le razze del mondo torneranno nuovamente insieme; dopo una lunga separazione, le famiglie rese un tempo orfane saranno riunificate e ogni giorno sarà un giorno di riunificazione e di rinnovati abbracci; poi gli abitanti dei tempi antichi torneranno sulla terra, in ogni tomba si riaccenderanno le spente ceneri; dappertutto le fiamme della vita bruceranno di nuovo, le antiche dimore saranno ricostruite, i tempi antichi rinasceranno e la storia sarà il sogno di un presente esteso all’eternità”.

La patrie ou la mort, nous vaincrons!

Grazie a tutti

Indegnità dei partiti e la deriva autoritaria

Dopo le case di Di Pietro e gli scandali delle regioni, ieri (18.11.2012) Report ha aperto uno squarcio sui fondi dei gruppi parlamentari (clikka per vedere il servizio). Diverse decine di milioni di euro (circa 70), che per la mancanza di una disposizione regolamentare, secondo il presidente Fini, non sarebbero rendicontabili. La cosa mi fa, ovviamente schifo! Credo che dai principi generali del nostro ordinamento si possa desumere che ogni qualvolta si spendano soldi pubblici i cittadini hanno il pieno diritto di averne conto e ragione. Questa è una ulteriore pietra che casca addosso alla casta dei partiti politici pregiudicandone la loro credibilità allo stato assolutamente ai minimi termini. La cosa mi preoccupa non poco perché a fronte di tale stato può avanzare qualunque cosa dietro il paravento del cambiamento. Va di moda, infatti, la partecipazione e nuove forme di democrazia, ma posso dire con cognizione di causa che esse sono utopie a bordo delle quali, la storia ci ha insegnato, spesso si trasporta l’autoritarismo. Il compito a cui hanno abdicato i partiti era quello di selezionare una classe dirigente degna e competente ed invece abbiamo una classe dirigente indegna ed incompetente. Nascondersi dietro il paravento del “decidiamo tutti i cittadini insieme” facendo appello alla società civile è pericolosissimo. Io ogni qualvolta ho cercato di condividere una delibera appena appena più complessa ho avuto una risposta assolutamente limitata. Pochi sono i cittadini che hanno la possibilità di leggere e di comprendere a pieno ciò che si nasconde dietro un comma o una decisione, e dire di aver preso una decisione partecipata spesso cela solo una scusa per decidere da solo o con l’accordo di pochi “interessati”. La verità è che occorrerebbe un gruppo dirigente in grado di prendere il meglio dalla società civile e dai partiti cercando di avvicinare i cittadini alla politica, ma saranno in grado i partiti da fare questo? La storia insegna! La crisi in Grecia ha partorito Alba Dorata! Sono rimasto impressionato dal testo tratto dal Main Kampf di Adolf Hitler sulla indegnità dei parlamentari che all’epoca portò al nazismo:

Tutte le mattine, il rappresentante del popolo arriva sino alla sede del Parlamento; se non entra, riesce ad arrivare perlomeno in anticamera dove viene affisso l’elenco dei parlamentari presenti: è su questo elenco, che il nostro, servendo la Nazione, scrive il proprio nome, ed è per questa fatica enorme, giornaliera, che incassa un profumato indennizzo. Passati quattro anni, o avvicinandosi sempre più lo scioglimento della Camera, detti signori vengono sollecitati da un impulso irrefrenabile, al pari della larva che è destinata a trasformarsi in farfalla, codesti vermi di parlamento abbandonano così il rifugio comune e volano fuori, dal popolo. Ricominciano nuovamente a parlare agli elettori narrando loro come siano ostinati gli altri, e di come essi abbiano invece duramente lavorato; succede invece che il popolo, questa massa d’ingrati, invece di applausi lancia sul loro viso insulti e urla piene di odio. In genere se l’ingratitudine popolare tocca livelli molto alti tocca rimediare con l’unico toccasana possibile; migliorare ancora i programmi. Perciò la commissione si rinnova e risorge, dando di nuovo vita all’eterno inganno. Conoscendo bene la testarda idiozia dell’umanità intera non dobbiamo poi stupirci dei risultati. È così che il gregge del proletariato e della borghesia rientra nella stalla, tenuto per mano dal nuovo, invitante programma e dalla stanga, pronto a rieleggere coloro che lo hanno ingannato. Con questo, l’uomo delegato dal popolo a rappresentarlo si ritrasforma nelle vesti del verme di parlamento, e riprende nuovamente a nutrirsi con le fronde dell’albero statale, per iniziare nuovamente il ciclo quattro anni dopo, mutarsi cioè di nuovo in farfalla“.

Eppure bastava leggersi Pericle!

Qui ad Atene noi facciamo così: “… quando un cittadino si distingue allora esso sarà a preferenza di altri chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, ma come una ricompensa al merito e la povertà non costituisce un impedimento…”.

Diversamente da come facevano nella antica Grecia, noi in Italia, siccome non abbiamo imparato né capito nulla, facciamo così: Quando un cittadino si distingue perché è indagato, inquisito, immischiato, “arravogliato”, quando è privo di ogni sia pur minimo spirito di servizio e senso dello Stato, quando ha interesse solo a maturare la pensione e ad intascare indennità, gettoni di presenza, privilegi, prebende o non andare a lavoro con la scusa dell’impegno politico, quando svolge la semplice politica della affermazione di se stesso, allora è PRONTO e noi lo chiamiamo, a preferenza di altri, a servire lo Stato e le sue istituzioni.

Spero che i segretari di partito (per quelli che sono rimasti) abbiano la capacità di discernere il grano dall’oglio, i fischi dai fiaschi i diavoli dall’acqua santa, il pepe dal sale, l’olio dal vino ….

Eppure bastava leggersi Pericle oppure, per quelli che non sanno leggere, vedere il filmato di Paolo Rossi!

La cultura dell’esempio e le dimissioni

carloAbbiamo discusso molto delle dimissioni di Carlo Iannello dalla presidenza della Commissione Urbanistica ed alla fine siamo giunti ad una decisione condivisa. La politica ha bisogno di coerenza e di atti esemplari che ci possono porre anche fuori dalle stanze, ma non importa, ciò che conta è essere compresi dai cittadini ed aver deciso in scienza e coscienza; ciò che conta è la cultura dell’esempio per distinguersi dalla malapolitica imperante. Nei palazzi ci sono solo tatticismi volti unicamente a fare politica, intesa non come cura dell’amministrazione, ma come semplice affermazione (tal volta anche rozza) di se stessi e del potere che si riesce a conquistare ed esprimere. Le scelte od un voto spesso non sono il risultato di uno studio e di una decisione coscienziosa e seria, ma l’adempimento di un ordine di scuderia. L’ignoranza serve a tenere calma la coscienza e rende più facile piegarsi alle decisioni prese nelle stanze chiuse. E’ strano ma quando i tuoi argomenti tecnici e politici risvegliano la coscienza nel tuo interlocutore che deve votare o adottare una scelta coraggiosa sale la rabbia, per aver svelato la verità che costringe a ribellarsi alla coscienza e ad essere consapevoli che si deve UBBIDIRE all’ordine. Meglio l’ignoranza, meglio non sentire o pensare che sei un nemico del governo.

Le motivazioni delle dimissioni di Carlo Iannello (clikka)

Dal Corriere del Mezzogiorno del 18 ottobre 2012

NAPOLI — Tra tutti gli eletti di «Napoli è Tua», la lista del sindaco Luigi de Magistris, Carlo Iannello è sempre stato il consigliere più critico. Forse per questo ha avuto un ruolo importante tra i picconatori di NèT, gruppo che si è frantumato in tre parti permettendo la nascita di Rifondazione democratica, partito a cui ha aderito Iannello. Ora però si consuma definitivamente anche la rottura con la maggioranza, visto che l’ex consigliere di NèT domani si dimetterà dalla presidenza della Commissione urbanistica.

Perché?
«Perché Il 17 settembre c’è stata una riunione della commissione urbanistica, molto partecipata. Ed è stato espresso parere negativo sulla delibera che ha poi conferito beni pubblici del patrimonio indisponibile alla Bagnolifutura. Dev’essere successo qualcosa perché poi, rispetto a quanto deciso, è cambiato tutto. Io in commissione ho un ruolo, e se questo ruolo viene calpestato vado via».
Ma che cosa è cambiato?
«E’ cambiato che il Consiglio l’ha invece votata».
Un ripensamento o scelte politiche?
«Non lo so. Ma facendo così il Consiglio ha smentito il lavoro della commissione, che è poi composta da consiglieri, senza dare spiegazioni. Quindi non mi rimane altro che dimettermi».
Non ci sono margini di ripensamento?
«No, non ci sono».
Ma perché il Comune non poteva conferire dei beni alla Bagnolifutura?
«Semplice: si tratta di beni pubblici dati a una società di diritto privato. Eppoi, lo dice la parola stessa: i beni sono indisponibili. E se sono indisponibili, in quanto riservati alla collettività, non possono essere dati ad una società per azioni per ripianarne i debiti. Si tratta infatti di beni costruiti con finanziamenti pubblici, e non possono, a mio avviso, essere trasferiti. Il Consiglio però ha deciso così e io ho deciso di dimettermi».
C’è chi ritiene però che lei si sarebbe dovuto dimettere comunque perché la presidenza della commissione urbanistica spettava a Napoli è Tua. E così?
«Io il Cencelli non l’ho studiato quindi non lo posso applicare perché non lo conosco. Se mi dimetto, ripeto, è soltanto per una questione istituzionale e di rispetto per le istituzioni».
Però non mi ha risposto: quel posto spettava a Napoli è Tua.
«Quel posto non spetta a questo o quel consigliere. Una volta eletto, infatti, un presidente rimane in carica fino a quando non si dimette. Non esiste infatti una strumento giuridico per rimuovere un presidente a meno che, ribadisco, non si dimetta di sua volontà. come faccio io».
Possibile che su Bagnoli salti sempre il tappo? Sono anni che Bagnoli e la Bagnolifutura dividano e non uniscano mai. Anche sulla vendita del suoli, per esempio, lei ha avuto sempre una posizione diversa da quella della maggioranza.
«Esatto. Io ero per non venderli ai privati ritenendo invece che dovesse essere la Bagnolifutura a costruire le case per poi rivenderle. Così si salvava pure la società. Invece anche su questo ci sono state vedute differenti».
Paolo Cuozzo

La condivisione del potere

Alla spartizione partitica del potere, preferisco la condivisione del potere e la cessione di sovranità in favore della partecipazione alle scelte amministrative dello Stato e degli Enti Locali. Non condivido scelte isolate giustificate dalla assunzione della relativa responsabilità perché esse spesso celano accordi volti unicamente all’accrescimento del proprio potere personale. Il vero leder si annulla nella scelta collettiva per essere il solo terminale della comunicazione. Sono convinto che i sistemi maggioritari hanno compiuto il loro corso ed in un momento delicato di crisi rappresentano addirittura un pericolo per il loro sbocco naturale verso la deriva autoritaria ed il dirigismo. Urge il cambio di una classe politica corrotta nell’azione e nel pensiero perché legata a logiche di “clan” dove il bene comune e l’interesse pubblico viene dopo l’interesse personale e dopo l’interesse del “clan”. Questi i principi cardine di ogni nuova forza politica o rinnovata che voglia assumere la sfida del governo del paese.

Il passato per costruire il futuro

Sono convinto che per ricominciare occorre ricordare il passato e gettare le basi sulle spalle ancora solide dei cd. padri costituenti della democrazia. Santiago Carrillo, si oppose al fallito colpo di Stato del colonnello Antonio Tejero del 23 febbraio 1981, e mentre tutti gli altri partecipanti al congresso si gettarono sotto i banchi per evitare le pallottole, Carrillo, si sedette e si accese un sigaro per dimostrare la inconsistenza dei golpisti.

Da Il Manifesto del 19.09.2012 Giuseppe Grosso

Nel pomeriggio di ieri (18.09.2012) è morto a 97 anni Santiago Carrillo, dopo aver dedicato più di 75 anni della sua vita al partito comunista spagnolo. Carrillo si è spento durante la siesta nella sua casa madrilena, in perfetta coerenza con quanto aveva dichiarato in una delle sue ultime intervista: «Io non ho paura della morte». La stessa coerenza che ha dimostrato nella sua traiettoria politica e nei suoi 22 anni (dal 1960 al1982) a capo del Partito comunista spagnolo. «Ho sempre difeso la libertà democratica e continuo a lottare per cambiare questo sistema sociale che reputo ingiusto», aveva dichiarato qualche anno fa dimostrando quella tenacia che lo ha contraddistinto negli anni della attività politica e che lo ha accompagna- to fino all’ultimo.

Con Carrillo se ne va un pezzo della storia politica spagnola e uno dei protagonisti della transizione della Spagna dalla dittatura alla democrazia. «In Spagna la transizione è stata un’opera plurale però alcuni spagnoli giocarono un ruolo chiave. Santiago Carrillo è tra questi» ha dichiarato il segretario del Psoe Alfredo Pérez Rubalcaba, commentando tra i primi la morte dell’ex segretario. Messaggi di cordoglio e di omaggio sono arrivati da parte di tutti i leader politici che hanno unanimemente riconosciuto la centralità della figura di Carillo nella storia democratica del paese. Tra i più commossi quello di Ga- spar Llamazare di Izquierda Unida: «Se ne va un pezzo della nostra storia. Non si può capire la vita democratica di oggi senza Carillo». Figlio di un sindacalista, nacque a Gijón nel 1915. Emigrò a Madrid do- ve grazie agli studi e all’esempio paterno maturò una precoce passione politica, che lo portò ad iscriversi quattordicenne alla gioventù socialista. Una foto lo ritrae il 14 aprile del 1931, a 16 anni, mentre nella casa del Re- loj della Puerta del Sol festeggia l’avvento della repubblica. Il 36 fu l’anno dell’iscrizione al Pce e dello lo scoppio della guerra civile, che vide Carrillo tra i protagonisti della resistenza madrilena. Tre anni più tardi, dopo la battaglia di catalogna e la resa delle truppe repubblicane iniziò l’esilio. Sarebbe tornato in Spagna solo 38 anni più tardi, nel 1976, dopo la morte di Franco per prendere parte alla vita democratica del paese che egli stesso aveva contribuito a far nascere. Politicamente fu un moderato e un riformista, al punto di aderire, insieme al Pci di Enrico Berlinguer e al Pcf di Georges Marchais, al cosiddetto «eurocomunismo». Una scelta che pagò con l’espulsione, nel 1985, dal Pce.

“Il vecchio muore e il nuovo non può nascere”

Interessante intervista a Bauman il cui pensiero condivido. La soluzione della condizione economica e politica in cui versiamo non conosce scorciatoie. La politica ha ceduto il passo alla finanza, i governi durano cinque anni e sono limitati ai paesi, il potere globale della finanza, delle banche, dei media, della criminalità, della mafia, del terrorismo e le grandi corporation della finanza non conoscono né limiti temporali né limiti territoriali. Bauman enuncia il problema e lascia intravedere la soluzione che deve iscriversi gioco forza in una dimensione quanto meno europea. Spero proprio che tutta questa ansia rottamatrice sia guidata nel solco tracciato dai nostri “pensatori”…

Da il Manifesto del 12.09.2012 Intervista a Bauman di Fanrizio Tonello

Sempre più lucido, sempre più indignato, Zygmunt Bauman, 87 anni, è arrivato a Mantova portando da solo la sua valigia, con l’inseparabile pipa e un fascio di carte che gli servono per il pamphlet sulla disuguaglianza che uscirà tra qualche mese dal suo tradizionale editore, Laterza. Il grande sociologo inglese di origine polacca, che i lettori del manifesto conoscono bene, è diventato celebre per i suoi libri sul mondo moderno, «un mondo che chiamo liquido perché come tutti i liquidi non può restare immobile a lungo. In questo nostro mondo tutto, o quasi, è in continua trasformazione: le mode che seguiamo, gli oggetti che richiamano la nostra attenzione, ciò che sogniamo o temiamo, che suscita in noi speranza o preoccupazione». A questa fluidità, però, si accompagna un grandissimo aumento della disuguaglianza e una forte resistenza al cambiamento e questo sembra essere il suo nuovo interesse di ricerca: l’iniquità del sistema e la sua capacità di resistere ai tentativi di regolarlo. Ne abbiamo parlato con lui durante una lunga conversazione a Mantova, in occasione del Festival Letteratura e dell’uscita del suo nuovo libro, Cose che abbiamo in comune (Laterza 2012, pp. 212, euro 15).

Lei è il teorico della «modernità liquida» e ha scritto mille volte che tutti noi «veniamo trascinati via senza posa». Ma non ha l’im- pressione che il mondo in cui viviamo stia però diventando sempre più solido, immodificabile? Se per «solidità» lei intende che è diventato più resistente al cambiamento, ha ragione. Negli ultimi anni ci sono stati molti movimenti, gli indignados spagnoli, Occupy Wall Street e altri. Molte spinte, grandi manifestazioni di massa e tuttavia non accade nulla. Prendiamo Occupy Wall Street: è stato trattato bene dai giornali, la televisione ne ha parlato, l’unica forza che non ha prestato alcuna attenzione è stata la Borsa di Wall Street. Non è cambiato assolutamente nulla. C’è solidità nel senso di resistenza al cambiamento, il sistema sembra immune a tutte le pressioni. Tuttavia, se prendiamo una bistecca, vogliamo tagliarla e non ci riusciamo, dobbiamo chiederci se è la carne che è davvero troppo dura o se è il coltello che stiamo usando che non è abbastanza affilato. La mia teoria è che il sistema non è solido di per sé: ha sviluppato efficaci meccanismi di autoriproduzione ma ha delle fragilità incorporate. Diventa più iniquo ogni giorno che passa: oggi negli Stati Uniti, un amministratore delegato guadagna in media 531 volte più del lavoratore medio; nel 1960 il rapporto era 1 a 12. La finanza ha creato un’economia immaginaria, virtuale, spostando capitali da un posto all’altro e guadagnando interessi. Il capitalismo tradizionale funzionava sulla creazione di beni, mentre ora non si fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il denaro: l’industria ha lasciato il posto alla speculazione, ai banchieri. Questo significa che il sistema ha accentuato la sua tendenza interna ad autodistruggersi, ma non potrà continuare a lungo. Se la resistenza umana non sarà in grado di mettervi fine ci penserà la natura. Ci sono ovviamente limiti precisi alle risorse del pianeta e una società basata sulla crescita illimitata della produzione e del consumo incontrerà questi limiti molto presto.

Proprio qui a Mantova lei ha detto che la politica è locale, delimitata dai confini degli Stati nazionali, mentre il potere è globale: è questo che rende il sistema così indifferente alle manifestazioni di resistenza alle sue logiche? Certamente, il potere è globale, il suo spazio è il pianeta, mentre le elezioni americane sono una competizione attorno agli interessi degli Stati Uniti: è questo che mette il potere in grado di fluire liberamente ovunque, senza prestare troppa attenzione a ciò che succede qua e là. A causa di questa fluidità ci troviamo in quello che Antonio Gramsci chiamava un interregno, una situazione nella quale «il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati». Il vecchio ordine fondato sulla stretta associazione di territorio, Stato e nazione sta morendo. La sovranità non è più associata ad alcuno degli elementi della triade territorio/Stato/nazione: tutt’al più è legata in modo blando a alcune loro componenti. Oggi essa è difficile da definire e controversa, porosa e scarsamente difendibile, disancorata e in balia delle correnti. Ciò che dà un’impressione di solidità del sistema è il fatto che il potere si è liberato dal controllo politico mentre la politica ha un deficit di potere. Il potere è la capacità di esercitare un comando. E la politica è la capacità di prendere decisioni vincolanti. Gli statinazione avevano il potere di decidere e una sovranità territoriale. Ma questo meccanismo è stato completamente travolto dalla globalizzazione perché la globalizzazione ha trasferito il vero potere al di là dei territori, scavalcando la politica. Gli Stati nazionali sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche, dei media, della criminalità, della mafia, del terrorismo. Ogni singolo potere si fa beffe delle regole e del diritto locali, e anche dei governi ovviamente. I governi europei dovrebbero fare ciò che gli elettori chiedono, cioè agire contro la disoccupazione di massa, ma naturalmente non lo possono fare: sono costretti ad ascoltare quanto le corporation e i banchieri dicono loro. Si trovano in quella situazione che uno psichiatra definirebbe di double bind. I governi sono eletti per quattro anni e possono agire solo su un territorio limitato, le corporation sono permanenti e hanno come teatro d’azione il mondo. Non riusciremo a risolvere i problemi globali se non con mezzi globali, restituendo alle istituzioni la possibilità di rispettare la volontà e gli interessi delle popolazioni. Però, questi mezzi non sono stati ancora creati.

Pena di morte: Le riflessioni di Aldo Masullo

Da il Mattino del 09.08.2012

Leggo sulle agenzie: «Un uomo è stato giustiziato nel Texas». All’orrore per il fatto si accompagna lo sdegno per il linguaggio. Io credo che un facile ma potente contributo all’abolizione definitiva della pena di morte sarebbe di usare l’unica parola oggettivamente appropriata: «assassinato». 
S’immagini l’effetto che, a ogni notizia di esecuzione capitale, avrebbe questo medesimo titolo su tutti i mezzi di comunicazione di massa, dalla carta stampata alla radio alla tv a internet: «In esecuzione di una condanna a morte, un uomo è stato assassinato». Sarebbe uno choc per tutti coloro che, nelle stritolatrici macchine della giustizia, concorrono al tragico esito, i quali sarebbero costretti a cercarsi ipocrite e umilianti giustificazioni. Ma lo choc non sarebbe minore per le folle che il termine «giustiziato», cioè «definitivamente trattato secondo giustizia», tranquillizza da oscuri terrori con il rassicurante pensiero che la giustizia il suo corso lo fa, e il male viene schiacciato.
È questo il caso esemplare in cui una parola, se gridata da chi detiene la potenza della comunicazione, produce una rivoluzione culturale e rovescia la prassi.
La sostituzione di «giustiziato» con «assassinato» scopre d’un colpo e fa sentire direttamente, direi sulla pelle, l’oscenità della parola abitualmente usata.
Nel lontano 1764, il nostro Beccaria osservava che il diritto di trucidare i propri simili non può venire dal contratto sociale, perché è assurdo che gli uomini abbiano dato agli altri il potere di ucciderli. Egli perciò non poteva non concludere che la pena di morte non è affatto un diritto del potere costituito, bensì «una guerra della nazione contro un cittadino».L’essenza «liberale» dello Stato «moderno» contrasta con la pratica della pena di morte al punto tale che, ovunque essa come una purulenta piaga vi si conservi, lo Stato se ne vergogna. Da un lato tenta di sterilizzarne l’orrore col maniacale puntiglio nel regolare le procedure delle esecuzioni capitali. Dall’altro lato, diversamente dalla vecchia spettacolarizzazione, ne nasconde la feroce inumanità nella clandestinità del carcere, che la notarile presenza dei malcapitati testimoni d’ufficio formalisticamente legalizza.
La parola «giustiziato» è il punto d’arrivo linguistico, l’anello finale della lunga catena di dissimulazioni di una radicale ingiustizia.
La notizia oggi pervenuta si correda di particolari per cui s’accresce, se mai possibile, il sentimento di vergogna dinanzi all’assassinio gabellato per eseguita giustizia. I bollettini delle agenzie e i primi commenti evidenziano la violazione dello stesso diritto sancito nel 2002 dalla Corte suprema degli Stati Uniti, per l’incompatibilità dell’esecuzione dei ritardati mentali con un preciso dettato costituzionale. Ma la Corte non osò sottrarre all’arbitrio dei singoli Stati la determinazione del ritardo mentale esimente. Il che aggrava l’orrore. 
La vita o la morte d’un uomo sono decise dall’imprevedibile gioco di criteri arbitrari (nel Texas non è considerato esimente dell’esecuzione il quoziente intellettivo di 61, pur assai inferiore alla media generalmente accettata di 70). E tutto questo viene chiamato «diritto», il nome in forza di cui l’uccisione di un uomo si presenta come giustizia.
L’assassinio anche di un solo uomo è la tragedia dell’intera umanità. Il mondo moderno sta dolorosamente imparando che se, come siamo giunti a dover ammettere per la ragione critica, tutto è relativo, in nome della stessa ragione un assoluto dobbiamo pur ammetterlo come postulato necessario a cui sospendere l’infinita trama del relativo. Quale esso sia ce lo insegna l’umile esperienza quotidiana: si può esser più intelligenti o meno, si può vivere meglio o peggio, si può esser amati più o meno e più o meno odiati, si è comunque sempre nell’orizzonte del possibile, ci si può sempre entro il suo limite muovere, andare avanti o tornare indietro. Questo è l’esser vivi. La morte invece nega tutto ciò, cancella ogni possibilità. E’ il salto dalla relatività del possibile all’impossibilità assoluta. 
L’unico assoluto positivo che razionalmente è possibile postulare perché l’umanità sopravviva è l’assoluta dignità dell’uomo, di ogni uomo nella sua irriducibile singolarità. Il che ha a che vedere non soltanto con la coscienza 
morale ma anche e soprattutto con la democrazia, esposta agli assalti d’una realtà tempestosa. Si può decidere a maggioranza per o contro la vita di un uomo, o essa è un invalicabile limite ? Così in genere si può decidere col voto su tutto, e perciò rastrellare comunque voti per conseguire maggiore potenza, ignorando ogni limite dell’oggettivo interesse politico ? 
Marco Pannella e i radicali meritoriamente promossero e sostennero fino alla vittoria presso le Nazioni Unite la dichiarazione della moratoria delle esecuzioni capitali. Ma il serpente non è stato schiacciato. Esso continua a mortalmente mordere non solo in società totalitarie o autoritarie, ma anche in parti culturali e istituzionali della prima democrazia moderna e della più avanzata potenza scientifica e tecnologica.
Perché non propugnano essi, che s’ispirano al significativo monito biblico «nessuno tocchi Caino», l’uso d’intitolare finalmente notizie, come quella di oggi, sotto il nome di «assassinio» ?

Salvatore Settis. Il paesaggio: La Costituzione un Manifesto da attuare

Sono fermamente convinto del valore politico della Costituzione e trovo interessante quest’intervista di Settis che considera la Costituzione stessa un Manifesto da attuare.

Da Il Manifesto del 08.08.2012

Così «l’incubo del contabile»
finirà per devastare l’isola

Archeologo e storico dell’arte di prestigio internazionale, accademico dei licei, direttore sino al 2010 della Scuola Superiore Normale di Pisa, Salvatore Settis da anni si batte per la tutela del paesaggio e dei beni culturali. Pochi giorni fa è stato in Sardegna per partecipare a una tavola rotonda dal titolo «Il valore della Terra», organizzata da Sardegna Democratica, l’associazione che fa capo a Renato Soru.

Professor Settis, qual è la sua valutazione del progetto della giunta Cappellacci di modifica del Piano paesaggistico della Sardegna?

Con incredulità e con dolore, vedo nel nuovo progetto l’intento di devastare la Sardegna, e lo strumento per renderlo possibile. Questa la mia valutazione, ma vorrei specificare, pensando alla Sardegna ma pensando anche all’Italia. Pianificare il paesaggio è un tema importantissimo, delicatissimo in tutto il mondo, e in Italia lo è ancor di più, per due ragioni: la straordinaria stratificazione di bellezza e di storia del nostro paesaggio, ma anche la tradizione altissima di civiltà e di cultura che è alla base della normativa italiana di merito. Basti ricordare che la prima legge sul paesaggio è dovuta a un ministro della Pubblica istruzione che si chiamava Benedetto Croce (1920). La legge Croce fu poi riscritta e ampliata in una delle due leggi Bottai nel 1939: leggi di un governo fascista che nulla ebbero di fascista, tanto è vero che nell’Assemblea costituente di una Repubblica nata contro il fascismo nacque l’articolo 9 della Costituzione, che contiene (lo ha scritto Sabino Cassese) la «costituzionalizzazione delle leggi Bottai». Prima al mondo, l’Italia poneva la tutela del paesaggio fra i principi fondamentali dello Stato. Da questa lunga linea di continuità nasce anche il Codice dei Beni culturali e del paesaggio (2004), che contiene l’attuale normativa. Ora il fatto è che la Sardegna è stata, con la giunta Soru, la regione italiana che ha interpretato questa tradizione con la massima intelligenza e fedeltà alla legge e alla Costituzione, e nel massimo rispetto della storia della Sardegna, ma soprattutto del suo futuro. Quel piano paesaggistico è un modello insuperato in Italia e, data la rilevanza dei paesaggi sardi, ha importanza europea e globale. Buttando via quel Piano, la Sardegna commetterebbe un doppio suicidio: danneggiando irreversibilmente i propri paesaggi unici al mondo, ma anche perdendo l’occasione storica di essere la Regione modello per tutta Italia.

La crisi globale spinge a una ridefinizione delle coordinate su cui basare economia e finanza. Ambiente e beni culturali posso- no svolgere un ruolo?

Abbiamo in Italia, pronto per l’uso, un manifesto da mettere in pratica: la Costituzione. Essa ha al centro l’idea di bene comune, il progetto di costruire una società libera e democratica sulla base dei diritti dei cittadini. Il grande movimento mondiale contro la cieca dominanza dei mercati potrebbe e dovrebbe trovare in Italia un punto di forza. Vorrei dirlo con le parole di un grandissimo economista, Keynes. Egli esortava a liberarsi dell’«incubo del contabile», e cioè del pregiudizio secondo cui nulla si può fare, se non comporta immediati frutti economici. «Invece di utilizzare l’immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, creiamo ghetti e bassifondi; e si ritiene che sia giusto così perché fruttano, mentre nell’imbecille linguaggio economicistico la città delle meraviglie potrebbe ipotecare il futuro». E Keynes continua: «Questa regola autodistruttiva di calcolo finanziario governa ogni aspetto della vita. Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo». Ecco: devastare il paesaggio in Sardegna sarebbe come fermare il sole e le stelle.

Politica e Costituzione: Il Giuramento della Pallacorda

“Si può cercare di spiegare che cosa sia la costitutività della costituzione prendendo lo spunto dall’immagine della sabbia, usata per constatare la condizione politica di disfacimento della vita sociale dell’Italia, in conseguenza degli eventi che seguirono l’8 settembre 1948, quando ogni autorità, ogni forza coesiva preesistente, lo Stato stesso sembravano essere venuti meno e aver lasciato il posto all’anarchia. Come costituire la sabbia ? ci si chiese. La costituzione è il mezzo attraverso il quale l’informe prende forma. E’ una risorsa alla quale le società umane si rivolgono dopo catastrofi come guerre intestine, crolli di regimi politici, rivoluzioni sconfitte belliche, che hanno distrutto le forme politiche precedenti, quando occorre darsene di nuove. Una Costituzione, cioè, è tale quando …. crea un ordine a partire da un disordine. Ogni grande rottura della vita politica porta con sé una nuova costituzione …. In Italia, abbiamo una testimonianza del significato costitutivo della carta costituzionale, nel modo stesso in cui fu elaborata la costituzione del 1948, dopo il crollo del fascismo e la decomposizione delle strutture statali. … La società italiana, per quanto lacerata, non si dimostrò fatta di sabbia informe … Nella pur varia presenza di posizioni politiche, sociali, culturali e religiose, si manifestò una forza etica più grande: La comune consapevolezza che non si poteva fallire, che la Costituzione era il traguardo che doveva essere raggiunto, pena l’anomìa, premessa di ulteriori divisioni laceranti, se non di rinnovata guerra civile, con il rischio che alla fine tutti quanti dovessero rinunciare a se stessi per mettersi nelle mani di un qualche potere imposto con l’argomento della forza. Per questo, i soggetti costituenti si obbligarono da sé o per così dire furono intimamente necessitati a cercare e a trovare una Costituzione”. “La legge e la sua giustizia” G. Zagreblesky.

E’ indubbio che siamo ad un nodo cruciale della vita dello Stato Italiano. Nel 1948 avevamo macerie fisiche oltre che politiche, oggi abbiamo, invece, macerie politiche, culturali, umane e sociali. Questo che stiamo vivendo è un momento storico insidioso poiché non si evidenzia nella sua piena drammaticità. Non ci sono crolli di palazzi né bombe di aerei! C’è la Costituzione ma è inattuata e svuotata sotto il peso della indegnità di una classe politica inadeguata e dell’economia. In questo noto le similitudini con il 1948. Al punto in cui siamo arrivati la nostra Carta Costituzionale rappresenta ancora oggi una valida sintesi dei principi espressi dallo stato sociale di diritto ed è la strada da seguire. Il lavoro, i beni comuni, l’interesse pubblico le cittadine ed i cittadini sia “come singoli che nelle formazioni sociali” al centro di una vera azione politica riformatrice. Questi gli unici ingredienti per sfuggire al populismo dilagante che fa leva sulla società civile e che potrebbe invadere le istituzioni con la collocazione di uomini abili alla distruzione ma inutili alla ricostruzione secondo i dettati costituzionali. Oggi gli uomini “capaci” che hanno a cuore il futuro del nostro paese devono farsi avanti.

La Francia nel momento più alto della rivoluzione, pose al centro del mutamento politico, la scrittura della Costituzione Francese. L’abate Emmanuel Joseph Sieyès scrisse un opuscolo politico nel gennaio del 1789 che ebbe grande successo, che iniziava con queste domande: «Che cos’è il terzo stato? Tutto. Che cosa è stato finora nell’ordinamento politico? Nulla. Che cosa chiede? Chiede di essere qualcosa». Dopo numerose altre vicende, nel giugno del 1789, i rappresentanti del Terzo Stato con pezzi del basso clero e nobili liberali si riunirono in Assemblea Nazionale, nella sala della pallacorda e giurarono di non separarsi in nessun caso e di riunirsi ovunque le circostanze lo avrebbero richiesto, fino a che la Costituzione francese non fosse stata stabilita e affermata su solide fondamenta.

Non è un caso, forse, che nonostante la nostra costituzione, le domande dell’abate Sieyès siano ancora attuali.

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La sacralità del bene comune e dell’interesse pubblico

Pur nella convinzione di dire una ovvietà credo che nelle persone è diffusa una disaffezione per i beni comuni e per l’interesse pubblico. Ciò che mi sorprende è che accade a tutti i livelli. Ci sono, infatti, quelli che pensano che al di là dell’uscio della propria casa si possa fare di tutto buttare carte, lattine e bottiglie a terra, sputare, imbrattare i muri ed i monumenti, far fare i bisogni al proprio cane senza raccoglierli, spaccare panchine e fioriere e chi più ne ha più ne metta e, quelli che, invece, seppure, dotati di una superiore sensibilità sono comunque convinti che non c’è nulla da fare, quindi, tanto vale non impegnarsi neppure. Questi atteggiamenti credo siano legati sia alla scarsa sensibilità sia al cattivo esempio che spesso proviene proprio da coloro che, per un motivo o per un altro, dovrebbero avere a cuore e curare il bene e l’interesse pubblico.  Il bene pubblico, in quanto tale, è considerato per taluni, di nessuno, per altri un bene naturalmente soggetto al saccheggio.

Legalità e famiglia un’altra riflessione di Aldo Masullo

Come sempre le riflessioni di Aldo Masullo sollecitano approfondimenti sulla società napoletana nella quale viviamo e sono sicuramente una chiave di lettura per comprendere meglio gli accadimenti dei quali è d’obbligo un approfondimento per giungere alle cause e non restare in “superfice”.

Da Il Mattino del 24 luglio 2012

Aldo Masullo

Illustre e gentile Ministro della Giustizia, a un napoletano per sua fortuna non imputabile di aver taciuto, avendo troppe volte pubblicamente detto e scritto sulla “Napoli immobile”, possa dalla Sua cortesia esser consentita qualche osservazione sui giudizi tanto accorati quanto autorevoli da Lei formulati in un’intervista apparsa ieri su questo giornale. Nelle sue risposte all’intervistatore si colgono due centrali punti di critica: l’inerzia diffusa dinanzi alla violenza della microcriminalità e l’assenza delle famiglie nel dotare le coscienze giovanili di «anticorpi rispetto alla criminalità». Sul primo punto, Lei comprensibilmente «resta senza parole» quando legge delle pattuglie di poliziotti aggredite da una folla compiacente per proteggere ladri». E ammonisce che «occorre quello scatto di orgoglio vero, trasversale e non circoscritto nell’orticello delle persone cosiddette per bene», che in Sicilia dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino, si espresse in «un moto spontaneo dal basso, dai giovani e dalle loro famiglie». Invece, Lei aggiunge, «a Napoli è ancora notte fonda per la presa di coscienza forte nel dire “no” a ogni forma di criminalità e di violenza». In tutti questi casi certamente si tratta di grave patologia sociale. Però purtroppo la patologia non è una sola, ma sono almeno due e assai diverse patologie. Nel caso della Sicilia si trattò dell’aperta dichiarazione di guerra della grande criminalità organizzata, percepita come una terribile e oltraggiosa minaccia a un popolo intero, che si trovò così di fronte dalla devastante verità da cui fino ad allora si era protetta soltanto rifiutandosi di vederla. Gli sconcertanti episodi di assalti alla polizia in alcuni quartieri di Napoli sono tutt’altra cosa: sono gli esiti di una cultura lazzaronesca e camorristica, che persiste alimentata come avamposto visibile dell’invisibile grande criminalità: in questo caso non c’entrano risposte attive dei pacifici cittadini, bensì la semplice energia di legittimo contrasto, con cui lo Stato deve educare anche i più riottosi a rispettarlo. Sul secondo e forse più dolente punto, Lei richiama la diserzione educativa delle famiglie. Qui consento pienamente con Lei, ma – mi permetta – con una precisazione, che ci consentirà poi di mettere a fuoco non tanto il problema della criminalità, su cui sembra concentrarsi la Sua attenzione di eminente penalista, quanto su ciò che, io credo, in fondo più fortemente La preoccupa: il problema della legalità. Purtroppo negli strati della popolazione di meno esibita ma spesso più acuta povertà, le famiglie non vogliono disertare, ma sono deboli, spesso impotenti, perché i giovani e i giovanissimi sono sempre più irresistibilmente catturati dai suggestivi miti e dai potenti meccanismi del totalitarismo consumistico, che li macina come in un frullatore di desideri e di fuorvianti occasioni. Né peraltro si può logicamente pretendere che forniscano anticorpi morali le non poche famiglie che purtroppo proprio solo dei corpi immorali sanno nutrirsi. Il Suo discorso sulla funzione della famiglia è dunque, gentile Ministro, destinato a una parte delle famiglie, il che del resto avviene a Napoli come dovunque nel nostro confuso tempo. Ma a quelle famiglie, che ben sono nelle condizioni per essere richiamate alla loro funzione formativa, è superfluo chiedere di educare contro le scelte criminali. Invece fondamentale è esigere che esse abbiano cura di suscitare, innanzitutto con l’esempio, il rigoroso senso della legalità. Dall’onestà fiscale e professionale del padre all’onestà scolastica del figlio, dalla veracità nei rapporti domestici alla franchezza (la parresia degli antichi Greci) dinanzi ai potenti, dal rifiuto della protezione nelle gare della vita al rifiuto della raccomandazione nelle prove scolastiche, nel crogiuolo della famiglia prende stabile forma la cultura della legalità. Una società tanto più si sviluppa civilmente, quanto più nel suo corpo è capillare l’esercizio della legalità. Quanto poi la cultura generalizzata e capillare della legalità influisca sulla stessa circoscritta ma esplosiva questione della criminalità, Lei ieri, nella pienezza delle Sue funzioni ministeriali e in vissuto confronto con la Sua sapienza giuridica, immagino l’abbia ancora una volta sperimentato nella visita al carcere di Poggioreale. In questi ultimi anni sono state incessanti le meritorie iniziative di Marco Pannella e dei radicali per richiamare l’opinione pubblica e le istituzioni politiche sulla gravissima lesione dei diritti civili dei detenuti, costretti alle torture del sovraffollamento carcerario. Io credo che, dietro certe incomprensibili resistenze al superamento dell’incivile situazione, operi, come sempre nella vita storica, una irrisolta arretratezza culturale. Walter Benjamin, come Lei c’insegna, nel celebre saggio del 1926 sostenne che il diritto è in ultima analisi violenza, intendendosi per violenza la pura e semplice forza. In quest’ottica la pena è un «castigo», una sofferenza arbitrariamente inflitta per aver disubbidito a un qualsiasi comando arbitrario, come al capriccio di qualche dea nei miti pagani. La pena, subìta come castigo, è un residuo estraneo alla modernità civile. Se la cultura della protezione è l’opposto della cultura del diritto, la cultura del castigo è a sua volta l’opposto della cultura della ragione sanzionatoria, la quale convoca il responsabile a riparare il danno prodotto. Oggi il carcere, non solo a Napoli, è di fatto ancora inteso, nonostante tutto, come lo strumento del castigo. Come tale, esso è incivile in linea di fatto per l’attuale sovraffollamento, ma lo è innanzitutto in linea di principio perché, togliendo all’uomo non solo la libertà ma quel che più propriamente lo realizza nella sua dignità, cioè la creatività del lavoro elettivo, mortifica la persona e ai suoi occhi finisce per trasformarla da colpevole in vittima. E non è forse, alla radice dei mali sociali di Napoli, la secolare scarsità di lavoro ? Mi perdoni, gentile Ministro, ma a questo punto comincia un altro discorso. La ringrazio.

La malattia di Napoli: la separatezza

Da “Napoli siccome immobile” intervista ad Aldo Masullo 2008:

“La malattia di Napoli è la separatezza, l’isolamento non solo tra le classi e i ceti, ma all’interno di ciascuna classe e di ciascun ceto. Anzi, non vi sono più né classi né ceti, ma ricchi e poveri alla rinfusa, potenti e umili alla rinfusa. Ogni abitante di napoli è rimasto isolato, senza comunicazione, senza alcun essere-in-comunione. Semmai vi sono bande, non c’è tessuto connettivo, non c’è società. Perciò Napoli dai suoi abitanti viene vissuta senza speranza. Il mare dei rifiuti che come una immonda alluvione ha inondato la città, la provincia e l’intera regione appare impietosa metafora della nostra attuale situazione, dunque morale e politica”.

La società Civile e la Politica

La parte buona della società civile non partecipa alla formazione della classe politica disinteressandosi così delle istituzioni e del bene pubblico. Quest’atteggiamento miope ha consentito l’occupazione di spazi politici a coloro che non hanno alcuna formazione culturale né politica. Il meccanismo elettorale premia solo coloro che riescono ad accumulare voti, poiché i partiti hanno abdicato alla loro principale funzione di filtro, formazione ed arruolamento della classe dirigente.

Fino a quando non capiremo che occorre occuparsi del bene pubblico come del bene proprio non ci sarà alcuna svolta.

Fino a quando non capiremo che la riprovazione sociale dei comportamenti scorretti deve essere tale da costringere il politico corrotto o dedito al malaffare a dimettersi ed il partito a non proteggerlo non avremo alcuna possibilità di svolta.

Fino a quando la classe intellettuale non uscirà dalle proprie case per mischiarsi con la gente comune non avremo alcuna possibilità di svolta.

Fino a quando non capiremo che la delega in bianco è figlia del “ghe pensi mi” non avremo alcuna svolta.

Fino a quando non avremo la capacità di appassionare i giovani alla politica non avremo nessuna svolta.

Fino a quando non ci occuperemo della cultura e dell’istruzione come principale mezzo di elevazione sociale non avremo nessuna svolta.

Fino a quando i palazzi del potere non saranno di cristallo non avremo nessuna svolta.

Fino a quando i politici e l’imprenditoria non capiranno che il pubblico non è un campo da saccheggiare non avremo nessuna svolta.

….

Interessante riflessione sulla separazione dei poteri

De Magistris, Narducci e la separazione dei poteri

di Aldo Masullo su il Mattino di Napoli del 30.06.2012

La polemica tra De Magistris, sindaco di Napoli, e il magistrato Narducci, da lui chiamato un anno fa come assessore nella sua giunta, ed ora traumaticamente dimissionario, appare un’ espressione del conflitto tra la difesa del «formalismo della norma», cui presiede la magistratura, e l’esigenza di duttilità della pubblica amministrazione, per la quale legalità e diritto debbono valere, ma come sfondo, limite estremo, in breve «orizzonte ». È interessante soffermarsi su questa apparenza, mettendola al riparo da ogni speculazioni sui motivi effettivi della rottura. L’ apparenza cioè le parole dette dai protagonisti e dai commentatori, sono cariche di senso. Vi si scorge  l’enorme problema della politica moderna: l’arduo nesso tra i due spiriti originari di essa, tra il liberale ed il democratico. Per la pura teoria è facile portarli a sintesi, non essendo il diritto altro che l’opposto dell’arbitrio e del privilegio, e dunque la tutela non di questo o quell’individuo bensì, senza riserve, di qualsiasi individuo. In astratto i due spiriti ben possono mostrarsi l’uno come il compimento dell’altro. Purtroppo però la vita non è un’ astrazione, ma un polipaio di forze reali, cioè di bisogni e desideri. Perciò ogni giorno il diritto del diritto si scontra con il diritto della forza, con le pretese d’ognuna delle forze che insieme lo sostengono, ma che, motivate da particolari e diversi interessi, a questi di volta in volta tentano di piegarlo in danno delle altre. Alla fine il diritto stesso si accontenta di essere un lontano e accondiscendente «orizzonte». Non è forse questo il cedimento che ha segnato l’intera storia della nostra vita repubblicana, espresso nella crescente tensione tra la «costituzione formale» e la «costituzione materiale»? Non affiora del resto di quando in quando l’idea che il lavoro giurisprudenziale debba essere «creativo» e non rigorosamente critico? Qui trova la sua ragione Pannella quando, purtroppo vanamente, rivendica con disperata puntigliosità, contro la devastazione «partitocratica», il ripristino della Costituzione nella pienezza della sua vigenza formale. De Magistris e Narducci si scontrano perché inconsciamente vi sono costretti  dalla storica perversione che insidia la nostra vita repubblicana. Il caposaldo di un regime democratico moderno non può essere se non quel principio liberale della separazione dei poteri che, in qualsiasi altro modo poi declinato nei molteplici modelli del costituzionalismo, già il «democratico» Rousseau nel 1762, solo tre anni dopo il «liberale» Montesquieu ma in modo ben più radicale di lui, poneva a fondamento della moderna statualità. Egli scriveva: «se il sovrano (ossia il popolo, l’unico legislatore) vuol governare (cioè occuparsi di applicare le leggi, amministrare), o l’amministratore e il giudice pretendono d’imporre leggi, il disordine succede alla regola». Questo principio è l’assoluto tabù dell’incesto istituzionale, che Rousseau riassunse in una fulminante battuta: «chiunque comandi agli uomini, non può comandare alle leggi; tanto meno chi comanda alle leggi può comandare agli uomini». Per la forza di questo tabù, il cui rispetto è vitale per la democrazia liberale, la nostra Costituzione impone che si assicuri d’imparzialità dell’amministrazione», avverte che «agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso », infine ammonisce con forza che «i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione» (artt. 97 e 98). Ebbene le riforme degli anni ’90, in nome dell’ efficienza che impongono alla macchina statale, non esitarono a stravolgere l’originaria architettura costituzionale, incuneandovi il principio incestuoso, e a stabilire che pubbliche amministrazioni possano essere dirette da persone non assunte per concorso, ma scelte per personale fiducia da ministri, presidenti di regione, sindaci. La nostra democrazia è stata fin dagl’inizi fatta segno di un’invadente e sempre più pervasiva incestuosità istituzionale. La inaugurò nel lontano 1954 Amintore Fanfani, allora segretario della Dc, il quale ebbe e attuò l’idea che a finanziare il partito potessero servire gli enti pubblici economici, ai cui vertici egli chiamava uomini di sua fiducia.  Fu il primo anello di un’ininterrotta catena d’incestuosa commistione del politico, del potere popolare di decidere le sue regole generali di civile convivenza, con l’amministrazione che è la responsabile competenza dei tecnici a organizzare la convivenza secondo quelle regole. Come d’altra parte potrebbero i due più forti poteri istituzionali controllarsi a vicenda, garantendo così l’uguaglianza e la libertà dei cittadini, se finissero insieme confusi in un torbido vortice di arbitri? D’incesto in incesto, siamo giunti al punto che, per esempio, le Regioni in una audizione parlamentare dichiarano, come si legge, che «la fidelizzazione dei primari ospedalieri alle scelte politiche è una condizione imprescindibile»: in altre parole proclamano che normale, anzi necessario è il sistema, in cui per le funzioni direttive mediche negli ospedali si sia scelti non dai competenti e per il valore professionale, bensì dalla bassa politica delle combinazioni partitiche e secondo le loro arbitrarie convenienze. Certamente tutto nella storia cambia. Dunque anche il quadro ambientale, in cui vivono le istituzioni e si dislocano i loro poteri, in questo sessantennio è mutato e continua a mutare profondamente. Tanto più allora, nel crescere della mutevolezza e della relatività dei rapporti, diventa indispensabile che i «limiti » di volta in volta decisi, fin quando si sta entro il tempo del loro durare, siano rigorosamente rispettati. Il pericolo mortale della democrazia è che il tabù liberale dell’incesto tra poteri dello Stato, come più in generale tra consenso politico e competenze oggettive, dilegui dalla coscienza pubblica. In questo senso la salvezza è nel diritto, e in nessun luogo e momento della vita democratica la «lotta per il diritto» può essere interrotta.

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