Leggo sulle agenzie: «Un uomo è stato giustiziato nel Texas». All’orrore per il fatto si accompagna lo sdegno per il linguaggio. Io credo che un facile ma potente contributo all’abolizione definitiva della pena di morte sarebbe di usare l’unica parola oggettivamente appropriata: «assassinato». S’immagini l’effetto che, a ogni notizia di esecuzione capitale, avrebbe questo medesimo titolo su tutti i mezzi di comunicazione di massa, dalla carta stampata alla radio alla tv a internet: «In esecuzione di una condanna a morte, un uomo è stato assassinato». Sarebbe uno choc per tutti coloro che, nelle stritolatrici macchine della giustizia, concorrono al tragico esito, i quali sarebbero costretti a cercarsi ipocrite e umilianti giustificazioni. Ma lo choc non sarebbe minore per le folle che il termine «giustiziato», cioè «definitivamente trattato secondo giustizia», tranquillizza da oscuri terrori con il rassicurante pensiero che la giustizia il suo corso lo fa, e il male viene schiacciato. È questo il caso esemplare in cui una parola, se gridata da chi detiene la potenza della comunicazione, produce una rivoluzione culturale e rovescia la prassi. La sostituzione di «giustiziato» con «assassinato» scopre d’un colpo e fa sentire direttamente, direi sulla pelle, l’oscenità della parola abitualmente usata. Nel lontano 1764, il nostro Beccaria osservava che il diritto di trucidare i propri simili non può venire dal contratto sociale, perché è assurdo che gli uomini abbiano dato agli altri il potere di ucciderli. Egli perciò non poteva non concludere che la pena di morte non è affatto un diritto del potere costituito, bensì «una guerra della nazione contro un cittadino».L’essenza «liberale» dello Stato «moderno» contrasta con la pratica della pena di morte al punto tale che, ovunque essa come una purulenta piaga vi si conservi, lo Stato se ne vergogna. Da un lato tenta di sterilizzarne l’orrore col maniacale puntiglio nel regolare le procedure delle esecuzioni capitali. Dall’altro lato, diversamente dalla vecchia spettacolarizzazione, ne nasconde la feroce inumanità nella clandestinità del carcere, che la notarile presenza dei malcapitati testimoni d’ufficio formalisticamente legalizza. La parola «giustiziato» è il punto d’arrivo linguistico, l’anello finale della lunga catena di dissimulazioni di una radicale ingiustizia. La notizia oggi pervenuta si correda di particolari per cui s’accresce, se mai possibile, il sentimento di vergogna dinanzi all’assassinio gabellato per eseguita giustizia. I bollettini delle agenzie e i primi commenti evidenziano la violazione dello stesso diritto sancito nel 2002 dalla Corte suprema degli Stati Uniti, per l’incompatibilità dell’esecuzione dei ritardati mentali con un preciso dettato costituzionale. Ma la Corte non osò sottrarre all’arbitrio dei singoli Stati la determinazione del ritardo mentale esimente. Il che aggrava l’orrore. La vita o la morte d’un uomo sono decise dall’imprevedibile gioco di criteri arbitrari (nel Texas non è considerato esimente dell’esecuzione il quoziente intellettivo di 61, pur assai inferiore alla media generalmente accettata di 70). E tutto questo viene chiamato «diritto», il nome in forza di cui l’uccisione di un uomo si presenta come giustizia. L’assassinio anche di un solo uomo è la tragedia dell’intera umanità. Il mondo moderno sta dolorosamente imparando che se, come siamo giunti a dover ammettere per la ragione critica, tutto è relativo, in nome della stessa ragione un assoluto dobbiamo pur ammetterlo come postulato necessario a cui sospendere l’infinita trama del relativo. Quale esso sia ce lo insegna l’umile esperienza quotidiana: si può esser più intelligenti o meno, si può vivere meglio o peggio, si può esser amati più o meno e più o meno odiati, si è comunque sempre nell’orizzonte del possibile, ci si può sempre entro il suo limite muovere, andare avanti o tornare indietro. Questo è l’esser vivi. La morte invece nega tutto ciò, cancella ogni possibilità. E’ il salto dalla relatività del possibile all’impossibilità assoluta. L’unico assoluto positivo che razionalmente è possibile postulare perché l’umanità sopravviva è l’assoluta dignità dell’uomo, di ogni uomo nella sua irriducibile singolarità. Il che ha a che vedere non soltanto con la coscienza morale ma anche e soprattutto con la democrazia, esposta agli assalti d’una realtà tempestosa. Si può decidere a maggioranza per o contro la vita di un uomo, o essa è un invalicabile limite ? Così in genere si può decidere col voto su tutto, e perciò rastrellare comunque voti per conseguire maggiore potenza, ignorando ogni limite dell’oggettivo interesse politico ? Marco Pannella e i radicali meritoriamente promossero e sostennero fino alla vittoria presso le Nazioni Unite la dichiarazione della moratoria delle esecuzioni capitali. Ma il serpente non è stato schiacciato. Esso continua a mortalmente mordere non solo in società totalitarie o autoritarie, ma anche in parti culturali e istituzionali della prima democrazia moderna e della più avanzata potenza scientifica e tecnologica. Perché non propugnano essi, che s’ispirano al significativo monito biblico «nessuno tocchi Caino», l’uso d’intitolare finalmente notizie, come quella di oggi, sotto il nome di «assassinio» ?
Pena di morte: Le riflessioni di Aldo Masullo

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