Attraversare Piazza Plebiscito è un impresa

Qualche volta ho provato anch’io ad attraversare piazza plebiscito in mezzo ai cavalli ad occhi chiusi e non ci sono riuscito…. come pure da ragazzino, in una delle prime uscite con gli amici mi è stata raccontata la storiella un po’ irriverente delle statue dei re che campeggiano sulla facciata di palazzo reale …. Interessante l’articolo oggi (10.08.2012) uscito su il Corriere del Mezzogiorno che racconta di come il giochino sia conosciuto sopratutto dai turisti:

«La storia, l’arte, la tradizione». Yanina Screpante, la fidanzata del Pocho che sta lasciando la casa napoletana per traslocare a Parigi dove Lavezzi è già in forza al Psg, intervistata ieri da Monica Scozzafava, ha raccontato che questo è ciò che di Napoli più ha apprezzato. E ha aggiunto alcuni dettagli e una curiosità: «Ho visitato Palazzo Reale, ho ammirato la bellezza architettonica dei palazzi di piazza dei Martiri e di piazza Vittoria. Sono rimasta incantata la prima volta che ho visto piazza del Plebiscito. Ricordo, era di sera. Alcuni amici mi fecero anche fare il giochino di camminare bendata verso i due cavalli. Anch’io, come tanti, non sono riuscita a passarci in mezzo». Ricordate il gioco una volta tanto in voga? Be’, la confessione di Yanina costituisce un’occasione per scoprire che sta tornando ad appassionare i napoletani e soprattutto i turisti. Tanto da essere citato da parecchie pagine web napoletane come Città di Partenope e Napolidavivere e da popolarissimi siti turistici come TripAdvisor.it, Trivago, Viaggiodasolo.com e Viaggero.it. Anzi quest’ultimo lancia un invito esplicito: «Provateci anche voi!». Scoprirete che, partendo bendati davanti al portone del Palazzo Reale, per quanto vi sforziate, è molto difficile che riusciate a passare tra i due cavalli installati dall’altro lato della piazza. Quasi certamente devierete e finirete tanto fuori traiettoria da rimanere sorpresi. Ma perché non si riesce a percorrere quelle poche decine di metri andando più o meno diritti? Esiste una spiegazione scientifica? «Certo — risponde Andrea Tessitore, neuropsichiatra di fama internazionale che ha da poco lasciato il Cardarelli — ma i cavalli non c’entrano. Il problema è che per cercare di passarci in mezzo utilizziamo la struttura dei sistemi dell’equilibrio. Cioè i due vestiboli, uno a destra e l’altro a sinistra, e il cervelletto. Però, se si cammina bendati, le percezioni di questi due sistemi vengono in parte attutite. Il corpo allora, per forza di cose, utilizza gli altri sensi: cerca di regolarsi sulla base dei rumori, delle sensazioni che prova attraverso la pelle. Inoltre, e soprattutto, conta molto l’emotività. Insomma, se non si è allenati, è difficile riuscire». Nonostante l’ampia distanza? «Proprio la sensazione dello spazio intorno può generare una sorta di agorafobia che incide in negativo: in uno spazio ristretto è più facile. Tra l’altro in piazza Plebiscito probabilmente c’è una certa pendenza che, non utilizzando la vista, concorre a indurre in errore». Secondo Tessitore l’unica soluzione è allenarsi, allenare i propri sensi a compensare le sensazioni mancanti o sbagliate. «A questo proposito consiglio un volumetto che contiene tanti suggerimenti proprio per sviluppare i propri sensi. Per esempio, in casa, spogliarsi e posare la giacca dove si posa di solito ma a occhi chiusi. Oppure togliere la cintura e rimetterla, sempre con gli occhi chiusi e con una sola mano: è difficile. Costa pochi euro ed è intitolato Fitness della mente. Ma non si spaventi per il nome dell’autore: è Katz», scherza Tessitore. In realtà gli autori sono due, Lawrence Katz e Manning Rubin, e puntano a migliorare la memoria e sviluppare la fantasia attraverso quella che hanno battezzato «neurobica», un modo giocoso per indicare la ginnastica della mente basata su serissime ricerche. L’allenamento è sicuramente necessario per riuscire a passare tra i cavalli perché in piazza Plebiscito c’è molto di più di una semplice pendenza. «Se così non fosse, il Palazzo Reale si allagherebbe ogni volta che piove», afferma l’architetto Paolo Mascilli Migliorini, funzionario della Soprintendenza ed esperto della piazza e della Reggia. Che, confessa, conosce il gioco dei cavalli ma non l’ha mai sperimentato personalmente. «Al Plebiscito c’è invece una struttura di gavete, cunette e compluvi, grazie alla quale l’acqua è ripartita e defluisce senza creare problemi. Ma il suolo è molto irregolare, il che rende difficile procedere diritti». Nelle foto dall’alto della piazza si vede chiaramente il «reticolato» di canaletti che costituiscono un enorme fattore di disorientamento per chi, con la fascia sugli occhi, cerchi di passare tra i cavalli partendo dal Palazzo Reale. Cioè di compiere, probabilmente in modo inconsapevole, quello che è anche un viaggio nella storia di Napoli. «La facciata, che misura circa 170 metri — spiega Mascilli Migliorini — fu completata nel 1613. All’epoca il porticato inferiore era aperto, lo chiuse Vanvitelli nel 1756. La parte libera della piazza è più o meno quadrata, quindi la distanza dal Palazzo Reale al diametro dell’emiciclo, sul quale sono collocati i cavalli, è più o meno di 170 metri. Non sembra, ma le dimensioni sono immense». Complessivamente quasi 25 mila metri quadrati. «Quando fu finita la facciata — riprende Mascilli Migliorini — la piazza non era come oggi. Al suo posto c’era il Largo di Palazzo, sterrato. Di lato sorgevano il vecchio Palazzo vicereale e un altro edificio che in seguito furono demoliti. Sul lato opposto alla Reggia c’erano varie chiese, che dal 1811 furono in parte demolite e in parte rettificate con il concorso per il Foro Murat. La piazza celebrativa c’è in tutte le grandi città europee controllate dai francesi, per esempio a Milano c’è il Foro Bonaparte. Ma nel 1815 Gioacchino Murat cadde mentre era appena stato cominciato il progetto di Palazzo Laperuta, dal nome dell’architetto Leopoldo Laperuta, che oggi ospita la Prefettura». Di fronte era previsto Palazzo Salerno, opera dell’architetto messinese Francesco Sicuro, i cui lavori erano cominciati nel 1775. La geometria precisa dell’odierna piazza del Plebiscito è dovuta a Murat. Successiva alla fucilazione del re di Napoli — processato, condannato e giustiziato a Pizzo Calabro la sera del 13 ottobre 1815 — è la realizzazione delle due statue dei cavalli, collocate a circa 50 metri una dall’altra. Sono opera di Antonio Canova, che cominciò il lavoro a partire del 1816, ma nel 1822 morì; la seconda, quindi, fu completata dall’allievo Antonio Calì. Gli edifici e le opere protagonisti del gioco a occhi chiusi sono stati realizzati dunque in un arco di tempo di oltre due secoli cruciali per la storia della città. «Ma oggi — conclude Mascilli Migliorini — dalle finestre di Palazzo Reale si vedono anche altri giochi: siamo diventati la capitale del crocchè indiano». Il crocchè? «Ma sì, il croquet in salsa napoletana praticato dagli immigrati: giocano in piazza ogni pomeriggio, è molto divertente». E in fondo porta anche un altro pizzico di storia al Plebiscito: il croquet, infatti, trae origine dal trecentesco gioco italiano della pallamaglio. Diffuso prima in Francia e poi in Irlanda, trovò la sua definitiva consacrazione verso la metà del 1800 in Inghilterra. Gli inglesi lo «esportarono» nelle loro colonie e oggi da lì è tornato in Italia, fino a Napoli. Ma si gioca a occhi aperti.

Pena di morte: Le riflessioni di Aldo Masullo

Da il Mattino del 09.08.2012

Leggo sulle agenzie: «Un uomo è stato giustiziato nel Texas». All’orrore per il fatto si accompagna lo sdegno per il linguaggio. Io credo che un facile ma potente contributo all’abolizione definitiva della pena di morte sarebbe di usare l’unica parola oggettivamente appropriata: «assassinato». 
S’immagini l’effetto che, a ogni notizia di esecuzione capitale, avrebbe questo medesimo titolo su tutti i mezzi di comunicazione di massa, dalla carta stampata alla radio alla tv a internet: «In esecuzione di una condanna a morte, un uomo è stato assassinato». Sarebbe uno choc per tutti coloro che, nelle stritolatrici macchine della giustizia, concorrono al tragico esito, i quali sarebbero costretti a cercarsi ipocrite e umilianti giustificazioni. Ma lo choc non sarebbe minore per le folle che il termine «giustiziato», cioè «definitivamente trattato secondo giustizia», tranquillizza da oscuri terrori con il rassicurante pensiero che la giustizia il suo corso lo fa, e il male viene schiacciato.
È questo il caso esemplare in cui una parola, se gridata da chi detiene la potenza della comunicazione, produce una rivoluzione culturale e rovescia la prassi.
La sostituzione di «giustiziato» con «assassinato» scopre d’un colpo e fa sentire direttamente, direi sulla pelle, l’oscenità della parola abitualmente usata.
Nel lontano 1764, il nostro Beccaria osservava che il diritto di trucidare i propri simili non può venire dal contratto sociale, perché è assurdo che gli uomini abbiano dato agli altri il potere di ucciderli. Egli perciò non poteva non concludere che la pena di morte non è affatto un diritto del potere costituito, bensì «una guerra della nazione contro un cittadino».L’essenza «liberale» dello Stato «moderno» contrasta con la pratica della pena di morte al punto tale che, ovunque essa come una purulenta piaga vi si conservi, lo Stato se ne vergogna. Da un lato tenta di sterilizzarne l’orrore col maniacale puntiglio nel regolare le procedure delle esecuzioni capitali. Dall’altro lato, diversamente dalla vecchia spettacolarizzazione, ne nasconde la feroce inumanità nella clandestinità del carcere, che la notarile presenza dei malcapitati testimoni d’ufficio formalisticamente legalizza.
La parola «giustiziato» è il punto d’arrivo linguistico, l’anello finale della lunga catena di dissimulazioni di una radicale ingiustizia.
La notizia oggi pervenuta si correda di particolari per cui s’accresce, se mai possibile, il sentimento di vergogna dinanzi all’assassinio gabellato per eseguita giustizia. I bollettini delle agenzie e i primi commenti evidenziano la violazione dello stesso diritto sancito nel 2002 dalla Corte suprema degli Stati Uniti, per l’incompatibilità dell’esecuzione dei ritardati mentali con un preciso dettato costituzionale. Ma la Corte non osò sottrarre all’arbitrio dei singoli Stati la determinazione del ritardo mentale esimente. Il che aggrava l’orrore. 
La vita o la morte d’un uomo sono decise dall’imprevedibile gioco di criteri arbitrari (nel Texas non è considerato esimente dell’esecuzione il quoziente intellettivo di 61, pur assai inferiore alla media generalmente accettata di 70). E tutto questo viene chiamato «diritto», il nome in forza di cui l’uccisione di un uomo si presenta come giustizia.
L’assassinio anche di un solo uomo è la tragedia dell’intera umanità. Il mondo moderno sta dolorosamente imparando che se, come siamo giunti a dover ammettere per la ragione critica, tutto è relativo, in nome della stessa ragione un assoluto dobbiamo pur ammetterlo come postulato necessario a cui sospendere l’infinita trama del relativo. Quale esso sia ce lo insegna l’umile esperienza quotidiana: si può esser più intelligenti o meno, si può vivere meglio o peggio, si può esser amati più o meno e più o meno odiati, si è comunque sempre nell’orizzonte del possibile, ci si può sempre entro il suo limite muovere, andare avanti o tornare indietro. Questo è l’esser vivi. La morte invece nega tutto ciò, cancella ogni possibilità. E’ il salto dalla relatività del possibile all’impossibilità assoluta. 
L’unico assoluto positivo che razionalmente è possibile postulare perché l’umanità sopravviva è l’assoluta dignità dell’uomo, di ogni uomo nella sua irriducibile singolarità. Il che ha a che vedere non soltanto con la coscienza 
morale ma anche e soprattutto con la democrazia, esposta agli assalti d’una realtà tempestosa. Si può decidere a maggioranza per o contro la vita di un uomo, o essa è un invalicabile limite ? Così in genere si può decidere col voto su tutto, e perciò rastrellare comunque voti per conseguire maggiore potenza, ignorando ogni limite dell’oggettivo interesse politico ? 
Marco Pannella e i radicali meritoriamente promossero e sostennero fino alla vittoria presso le Nazioni Unite la dichiarazione della moratoria delle esecuzioni capitali. Ma il serpente non è stato schiacciato. Esso continua a mortalmente mordere non solo in società totalitarie o autoritarie, ma anche in parti culturali e istituzionali della prima democrazia moderna e della più avanzata potenza scientifica e tecnologica.
Perché non propugnano essi, che s’ispirano al significativo monito biblico «nessuno tocchi Caino», l’uso d’intitolare finalmente notizie, come quella di oggi, sotto il nome di «assassinio» ?

Salvatore Settis. Il paesaggio: La Costituzione un Manifesto da attuare

Sono fermamente convinto del valore politico della Costituzione e trovo interessante quest’intervista di Settis che considera la Costituzione stessa un Manifesto da attuare.

Da Il Manifesto del 08.08.2012

Così «l’incubo del contabile»
finirà per devastare l’isola

Archeologo e storico dell’arte di prestigio internazionale, accademico dei licei, direttore sino al 2010 della Scuola Superiore Normale di Pisa, Salvatore Settis da anni si batte per la tutela del paesaggio e dei beni culturali. Pochi giorni fa è stato in Sardegna per partecipare a una tavola rotonda dal titolo «Il valore della Terra», organizzata da Sardegna Democratica, l’associazione che fa capo a Renato Soru.

Professor Settis, qual è la sua valutazione del progetto della giunta Cappellacci di modifica del Piano paesaggistico della Sardegna?

Con incredulità e con dolore, vedo nel nuovo progetto l’intento di devastare la Sardegna, e lo strumento per renderlo possibile. Questa la mia valutazione, ma vorrei specificare, pensando alla Sardegna ma pensando anche all’Italia. Pianificare il paesaggio è un tema importantissimo, delicatissimo in tutto il mondo, e in Italia lo è ancor di più, per due ragioni: la straordinaria stratificazione di bellezza e di storia del nostro paesaggio, ma anche la tradizione altissima di civiltà e di cultura che è alla base della normativa italiana di merito. Basti ricordare che la prima legge sul paesaggio è dovuta a un ministro della Pubblica istruzione che si chiamava Benedetto Croce (1920). La legge Croce fu poi riscritta e ampliata in una delle due leggi Bottai nel 1939: leggi di un governo fascista che nulla ebbero di fascista, tanto è vero che nell’Assemblea costituente di una Repubblica nata contro il fascismo nacque l’articolo 9 della Costituzione, che contiene (lo ha scritto Sabino Cassese) la «costituzionalizzazione delle leggi Bottai». Prima al mondo, l’Italia poneva la tutela del paesaggio fra i principi fondamentali dello Stato. Da questa lunga linea di continuità nasce anche il Codice dei Beni culturali e del paesaggio (2004), che contiene l’attuale normativa. Ora il fatto è che la Sardegna è stata, con la giunta Soru, la regione italiana che ha interpretato questa tradizione con la massima intelligenza e fedeltà alla legge e alla Costituzione, e nel massimo rispetto della storia della Sardegna, ma soprattutto del suo futuro. Quel piano paesaggistico è un modello insuperato in Italia e, data la rilevanza dei paesaggi sardi, ha importanza europea e globale. Buttando via quel Piano, la Sardegna commetterebbe un doppio suicidio: danneggiando irreversibilmente i propri paesaggi unici al mondo, ma anche perdendo l’occasione storica di essere la Regione modello per tutta Italia.

La crisi globale spinge a una ridefinizione delle coordinate su cui basare economia e finanza. Ambiente e beni culturali posso- no svolgere un ruolo?

Abbiamo in Italia, pronto per l’uso, un manifesto da mettere in pratica: la Costituzione. Essa ha al centro l’idea di bene comune, il progetto di costruire una società libera e democratica sulla base dei diritti dei cittadini. Il grande movimento mondiale contro la cieca dominanza dei mercati potrebbe e dovrebbe trovare in Italia un punto di forza. Vorrei dirlo con le parole di un grandissimo economista, Keynes. Egli esortava a liberarsi dell’«incubo del contabile», e cioè del pregiudizio secondo cui nulla si può fare, se non comporta immediati frutti economici. «Invece di utilizzare l’immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, creiamo ghetti e bassifondi; e si ritiene che sia giusto così perché fruttano, mentre nell’imbecille linguaggio economicistico la città delle meraviglie potrebbe ipotecare il futuro». E Keynes continua: «Questa regola autodistruttiva di calcolo finanziario governa ogni aspetto della vita. Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo». Ecco: devastare il paesaggio in Sardegna sarebbe come fermare il sole e le stelle.

Politica e Costituzione: Il Giuramento della Pallacorda

“Si può cercare di spiegare che cosa sia la costitutività della costituzione prendendo lo spunto dall’immagine della sabbia, usata per constatare la condizione politica di disfacimento della vita sociale dell’Italia, in conseguenza degli eventi che seguirono l’8 settembre 1948, quando ogni autorità, ogni forza coesiva preesistente, lo Stato stesso sembravano essere venuti meno e aver lasciato il posto all’anarchia. Come costituire la sabbia ? ci si chiese. La costituzione è il mezzo attraverso il quale l’informe prende forma. E’ una risorsa alla quale le società umane si rivolgono dopo catastrofi come guerre intestine, crolli di regimi politici, rivoluzioni sconfitte belliche, che hanno distrutto le forme politiche precedenti, quando occorre darsene di nuove. Una Costituzione, cioè, è tale quando …. crea un ordine a partire da un disordine. Ogni grande rottura della vita politica porta con sé una nuova costituzione …. In Italia, abbiamo una testimonianza del significato costitutivo della carta costituzionale, nel modo stesso in cui fu elaborata la costituzione del 1948, dopo il crollo del fascismo e la decomposizione delle strutture statali. … La società italiana, per quanto lacerata, non si dimostrò fatta di sabbia informe … Nella pur varia presenza di posizioni politiche, sociali, culturali e religiose, si manifestò una forza etica più grande: La comune consapevolezza che non si poteva fallire, che la Costituzione era il traguardo che doveva essere raggiunto, pena l’anomìa, premessa di ulteriori divisioni laceranti, se non di rinnovata guerra civile, con il rischio che alla fine tutti quanti dovessero rinunciare a se stessi per mettersi nelle mani di un qualche potere imposto con l’argomento della forza. Per questo, i soggetti costituenti si obbligarono da sé o per così dire furono intimamente necessitati a cercare e a trovare una Costituzione”. “La legge e la sua giustizia” G. Zagreblesky.

E’ indubbio che siamo ad un nodo cruciale della vita dello Stato Italiano. Nel 1948 avevamo macerie fisiche oltre che politiche, oggi abbiamo, invece, macerie politiche, culturali, umane e sociali. Questo che stiamo vivendo è un momento storico insidioso poiché non si evidenzia nella sua piena drammaticità. Non ci sono crolli di palazzi né bombe di aerei! C’è la Costituzione ma è inattuata e svuotata sotto il peso della indegnità di una classe politica inadeguata e dell’economia. In questo noto le similitudini con il 1948. Al punto in cui siamo arrivati la nostra Carta Costituzionale rappresenta ancora oggi una valida sintesi dei principi espressi dallo stato sociale di diritto ed è la strada da seguire. Il lavoro, i beni comuni, l’interesse pubblico le cittadine ed i cittadini sia “come singoli che nelle formazioni sociali” al centro di una vera azione politica riformatrice. Questi gli unici ingredienti per sfuggire al populismo dilagante che fa leva sulla società civile e che potrebbe invadere le istituzioni con la collocazione di uomini abili alla distruzione ma inutili alla ricostruzione secondo i dettati costituzionali. Oggi gli uomini “capaci” che hanno a cuore il futuro del nostro paese devono farsi avanti.

La Francia nel momento più alto della rivoluzione, pose al centro del mutamento politico, la scrittura della Costituzione Francese. L’abate Emmanuel Joseph Sieyès scrisse un opuscolo politico nel gennaio del 1789 che ebbe grande successo, che iniziava con queste domande: «Che cos’è il terzo stato? Tutto. Che cosa è stato finora nell’ordinamento politico? Nulla. Che cosa chiede? Chiede di essere qualcosa». Dopo numerose altre vicende, nel giugno del 1789, i rappresentanti del Terzo Stato con pezzi del basso clero e nobili liberali si riunirono in Assemblea Nazionale, nella sala della pallacorda e giurarono di non separarsi in nessun caso e di riunirsi ovunque le circostanze lo avrebbero richiesto, fino a che la Costituzione francese non fosse stata stabilita e affermata su solide fondamenta.

Non è un caso, forse, che nonostante la nostra costituzione, le domande dell’abate Sieyès siano ancora attuali.

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Sport e diversa abilità il caso Pistorius

Il caso Pistorius crea non pochi interrogativi ed apre uno scenario nuovo dove la tecnologia potrebbe essere addirittura di un ausilio tale per l’uomo da fargli superare addirittura le normali capacità. In mancanza di conoscenze specifiche a me non dispiace la partecipazione di Pistorius alle olimpiadi dei cd. normodotati.

Da il Mattino del 05.08.2012

LONDRA. «Hats off to him»: giù il cappello davanti a lui, ha detto Kirani James, che non ha ancora vent’anni ed è campione del mondo dei 400 metri: l’atleta di Grenada è chiamato The Jaguar, ma ha dedicato ieri mattina tutto il suo rispetto a Oscar Pistorius, il quale, per via delle sue gambe che sono delle protesi in fibra di carbonio, viene chiamato Blade Runner. 
Pistorius, sudafricano e campione paralimpico, è stato ammesso ai Giochi dei normodotati, si dice così, ma più semplicemente ai Giochi degli uomini. Ed è riuscito a qualificarsi per la semifinale individuale che si correrà oggi. Così quei 400 metri che una lontana atleta alla quale appartiene ancora il record del mondo datato 1985, la tedesca dell’est Marita Koch, chiamava il giro della morte sono diventati il giro della vita.
Perché Oscar Pistorius non porta soltanto se stesso su quelle gambe di carbonio che messe sui blocchi sembrano più un proseguimento degli stessi che non due gambe: porta la speranza, la certezza, che la quotidianità può appartenere a chiunque, qualsiasi cosa capiti. Un po’ troppo mediatizzato, Pistorius, un po’ troppo «mettiamoci a posto la coscienza con lui», ma il messaggio vero è quello giusto. 
Lo ha sentito fin da bambino, quando la diagnosi è stata tremenda e i dottori hanno dovuto dire che per la malformazione congenita quelle due gambe, che tali non erano, andavano amputate. E fin da bambino Oscar ha sentito l’amore di una famiglia e non solo. Sua nonna, che ha 89 anni, sventolava ieri allo stadio la bandiera del Sudafrica: «Che emozione quando ho visto lei, tutta la famiglia, gli amici e la bandiera» ha detto Pistorius, che, dal punto di vista sportivo ha raggiunto l’obiettivo prefisso: la semifinale individuale e aspetta una medaglia magari dalla staffetta. Una medaglia meno agra di quella che il Sudafrica, e dunque pure lui, vinse ai mondiali di Daegu, quando dopo aver partecipato alla prima frazione della qualificazione venne sostituito nella finale. 
«Quando mi sono svegliato prima della gara non sapevo che fare: volevo piangere – ha detto Pistorius che con il record personale di 45”44 è poi arrivato secondo in batteria – io avvantaggiato dalle protesi? Non rispondo più: mi hanno fatto sedici test in tre settimane, tutte le analisi possibili. Le mie protesi sono le stesse da un sacco di tempo: gli strumenti da corsa di tutti gli altri, magari le scarpe, magari le tute, sono in evoluzione continua, eppure va bene». E non fa la domanda della provocazione: perché nessuno si taglia le gambe per correre più forte? 
È che nella vita sempre bisognerebbe avere «coraggio e fiducia in se stessi come ha Oscar» ha detto Kirani James, che ora è favorito per l’oro dopo che il campione uscente, LaShawn Merritt s’è fermato per un dolore muscolare in batteria (in precedenza lo avevano fermato per doping e aveva detto: «era solo viagra, avevo delle notti impegnative»). Dovrà comunque vedersela con i gemelli del Belgio, Jonathan e Kevin Borlee, classe 1988, andati ad allenarsi in cima a un ghiacciaio, dove l’aria è pura e l’ossigeno a buon mercato. E così gli Stati Uniti rischiano di perdere un oro che è loro da Los Angeles ’84.

Gli sprechi della metropolitana!!

kapoor

La notizia dell’architetto Kapoor che rivuole le sue opere d’arte progettate e realizzate per la costruzione di due uscite della Matropolitana di Monte Sant’Angelo mi ha colto di sorpresa. Di questa cosa, peraltro, ne avevo parlato, qualche settimana fa, con alcuni tecnici del Comune di Napoli, quindi, quando ho letto l’articolo sul corriere mi sono rizelato per gli ulteriori particolari. Non sapevo esattamente il costo ma da quello che leggo solo l’opera ci è costata circa 10 milioni i euro mentre per la realizzazione dell’anello ferroviario ci sono, come leggo, delle serie perplessità sulla utilità di realizzare una stazione a Montesant’angelo. La considerazione comune con i tecnici con i quali ho parlato era che prevedere delle opere d’arte in ogni stazione della metro è stato forse uno spreco di risorse non giustificato. Le stazioni sono belle e sono un biglietto da visita, mi ricordo quelle di Lisbona tra cui una di Calatrave ma a Londra la stazione è una semplice uscita che dal sottosuolo ti porta sopra. Oggi, con la crisi, il contrasto è ancora più evidente e lo spreco è insopportabile. A questo punto non mi meraviglierei se stessimo pagando anche un deposito all’Olanda che tiene le opere di Kapoor in deposito. Che dire occorrerebbe una approfondita riflessione per capire se possiamo rivenderle all’architetto artista poiché da quanto ho capito la stazione di Monte Sant’Angelo pare sia stata progettata con quelle uscite artistiche (sono due) e che un cambio determinerebbe anche la necessità di una riprogettazione. Per ciò che posso capire, io l’unica cosa che vorrei è che si smettesse una volta per tutte con questi sprechi per cominciare a considerare il bene pubblico e l’interesse pubblico come sacri!

Da Il Corriere del Mezzogiorno del 05.08.2012

L’ira di Kapoor su Napoli: rivoglio le mie opere.

L’artista indiano pronto a comprarle e a portarle in Medio Oriente. Lo scultore indiano Anish Kapoor è pronto a riacquistare personalmente le opere che ha realizzato per la stazione della metropolitana di Napoli-Monte Sant’Angelo. Attualmente depositate in un cantiere olandese in attesa di essere installate a Napoli, le sculture costate 8 milioni di euro potrebbero essere ricontestualizzate in un altro cantiere che l’artista di origini indiane ha aperto in Medio Oriente. Nei giorni scorsi Kapoor ha affidato ad uno dei due suoi galleristi italiani un mandato esplorativo per conoscere lo stato giuridico delle opere ed il valore chiesto per la riacquisizione. Kapoor, amareggiato per la sorte di un progetto – che doveva essere ben altra cosa – non risparmia la sua amarezza verso quella che definisce la lenta burocrazia napoletana. Intanto il cantiere della stazione affoga nel degrado.

NAPOLI – La torre ArcelorMittal Orbit ideata da Anish Kapoor è l’icona dei giochi olimpici di Londra 2012. Realizzata in acciaio tubolare rosso Ral 3003, per un’altezza di 114,5 metri è il faro che illumina il Parco Olimpico. Nel 2010 Kapoor ottenne il via libera alla sua proposta. E dopo due anni, nei tempi previsti, ebbe la soddisfazione di veder realizzata quella che in tanti ormai chiamano la torre Eiffel londinese. Molta meno soddisfazione, invece, nell’esperienza napoletana dell’architetto anglo-indiano. Il progetto della stazione di Monte Sant’Angelo è partito nel 1999 e ancora oggi non è neppure in dirittura d’arrivo. Kapoor venne contattato nel 2003 per disegnare la stazione «opera d’arte» che doveva diventare simbolo del metrò napoletano e, in qualche modo, della rinascita della città. E lo fece. Per lui due milioni e 60 mila euro. Otto milioni invece per la realizzazione delle mega strutture di acciaio Cor-ten, le bocche d’accesso alla stazione che si trovano ora in un bacino-deposito olandese in attesa di essere portate, con una nave, a Napoli. Kapoor guarda ai suoi figli dimenticati e non ci sta. Rivuole quelle opere. E’ disposto a ricomprarle pur di salvarle dall’abbandono, per poi dirottarle in un cantiere del Medio Oriente. Il primo sondaggio di una possibile trattativa è avvenuto qualche settimana fa attraverso uno dei suoi galleristi italiani. Semplice la domanda: quanto devo pagare per tornare in possesso delle mie opere? Un quesito al quale dovrebbe rispondere la Giustino costruzioni che ha acquisito le strutture per realizzare la stazione di Monte Sant’Angelo. Una vicenda assurda che vale la pena di ricostruire. Sembra che dopo l’ennesimo rinvio dell’ennesima scadenza per la realizzazione dell’opera, il 30 giugno scorso, l’artista sia andato su tutte le furie. «Ma che razza di modi sono questi, io ci ho messo la faccia», si sarebbe sfogato con un collaboratore. Usando parole poco lusinghiere nei confronti della burocrazia e della gestione della cosa pubblica a Napoli. Ma lo slittamento della scadenza ha provocato anche un altro effetto. I gestori del bacino olandese, dove sono abbandonate le due mastodontiche opere, si trovano in difficoltà. Hanno bisogno di spazio e così hanno telefonato a Kapoor chiedendogli, gentilmente, di risolvere il problema. Al più presto. E così dopo essere andato su tutte le furie e aver imprecato contro il malgoverno, l’architetto si è rivolto al suo gallerista in maniera perentoria: basta, rivoglio quelle opere. Sono disposto a comprarle.

Secondo indiscrezioni pare che la trattativa dovrebbe entrare nel vivo a settembre, e sembra che il prezzo si aggiri intorno ai dieci milioni (i due milioni e passa liquidati a Kapoor più gli otto milioni per la loro realizzazione). Tutto dipenderà dalla volontà o meno, da parte della Regione e del Comune, di portare a termine l’opera così come era stata ideata. Ma i segnali sono chiari. Basta ricordare le parole, appena un mese fa, pronunciate con decisione da Nello Polese, presidente dell’Eav (Ente autonomo volturno), la società cui fanno capo Circumflegrea e Cumana, le due linee che dovrebbero riunirsi proprio nell’anello di Fuorigrotta. Al Corriere del Mezzogiorno, che gli aveva chiesto il perché dei ritardi e dello slittamento del termine di consegna dell’opera, aveva risposto: «I lavori a Monte Sant’Angelo sono fermi come in molti altri cantieri. Il ministero delle Infrastrutture ha sbloccato i finanziamenti concordati a ottobre. Francamente, però, tra le varie opere bloccate quella di Monte Sant’Angelo è la meno rilevante sotto il profilo del traffico di persone, è un’opera ereditata. Anche il costo per passeggero è anomalo, cioé altissimo». E poi, pur rassicurando sul completamento della stazione, aveva espresso grandi perplessità: «Certo la dobbiamo finanziare e completare. Ma per esempio manca il progetto di chiusura di quell’anello di traffico, dopo la stazione di Terracina non si capisce come la linea possa arrivare a piazzale Tecchio». In pratica il progetto della chiusura dell’anello esiste, ma è finanziato limitatamente ai primi tre lotti: Monte Sant’Angelo-Soccavo, Monte Sant’Angelo-Parco San Paolo e Parco San Paolo-via Terracina. Il quarto, cioé la chiusura a piazzale Tecchio, ha un progetto di massima senza nessuna copertura finanziaria. Stando ai dati in possesso dell’Eav rispetto ad altri lotti ferroviari la bretella di Fuorigrotta ha quindi un costo sproporzionato, perché la mancata chiusura della linea porterebbe a spese di esercizio superiori. Per i tecnici costa quasi il doppio rispetto a una qualsiasi altra linea.

In pratica oltre 85 milioni di euro (350 con tutte le bretelle di collegamento, parcheggi e strutture varie). E con troppi debiti sul groppone: tanto che l’assessorato regionale ai trasporti ha dovuto sospendere i finanziamenti alla Sepsa perché, così come succede con le altre aziende del gruppo Eav, i fondi andavano a finire ai creditori o alle banche, senza sfiorare nemmeno le casse delle società appaltatrici. Così i lavori si sono fermati, nel cantiere sono cresciute le erbacce e qua e là sono comparsi cumuli di monnezza. E come se non bastasse Kapoor rivuole le sue opere. Bella fine per quella che doveva essere la stazione dell’arte, il simbolo della rinascita di Napoli.

Lista dei Sindaci e Lista Arancione. Massimo Zedda

I Comuni hanno bisogno dei loro Sindaci per andare avanti. Ciò credo valga ancora di più per i Comuni nei quali c’è stata la “rivoluzione arancione”. Le politiche sono importanti, ma non dobbiamo perdere di vista il nostro obiettivo. Anch’io sono convinto che ci sarà bisogno di un contributo in termini di uomini in parlamento ma l’impegno deve essere dosato con la interlocuzione con quei soggetti, tra cui i partiti, che dimostreranno di volere veramente il cambiamento attraverso la sostituzione degli uomini che da decenni occupano il potere! Non ci potrà essere cambiamento senza il cd. cambio della guardia. Di seguito l’intervista di Zedda.

Da Il Manifesto del 4 agosto 2012 Giorgio Salvietti:

Massimo Zedda vuole continuare a fare il primo cittadino di Cagliari. Non crede in un partito dei sindaci che apra il centrosinistra alla cittadinanza attiva: «Sono di Sel e sostengo il mio partito» Che cos’è questa lista dei sindaci? Dopo l’accordo tra Bersani e Vendola si torna a parlare di un movimento che vede come protagonisti i primi cittadini della svolta arancione dello scorso anno, i quali scenderrebbero direttamente in campo con una loro lista per appoggiare il centrosinistra alle prossime elezioni. Sarebbe questa la via per coinvolgere la società civile, drenare la perdita di voti e di fiducia per la politica e arginare l’ascesa del Movimento Cinque Stelle. Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ci crede e si è candidato ad esserne il fondatore e il trascinatore. Si fanno i nomi anche del sindaco di Cagliari, Massimo Zedda, e del sindaco di Bari, Michele Emiliano, capeggiati non da De Magistris, ma da Giuliano Pisapia che avrebbe già dato la pro- pria disponibilità a Vendola e Bersani, e che sarebbe più gradito ai due leader. Pisapia però è in vacanza e nel suo staff più che di lista dei sin- daci si pensa a come aprire i partiti al contributo della cittadinanza attiva. Il Pd ieri ha negato l’esistenza di questa lista. E per Emiliano si tratta di un’ipotesi che non esiste «disegnata nel cielo». Ne parliamo con il sindaco di Cagliari, Massimo Zedda. Sindaco allora cos’è questa lista?

Io non ne so niente. E in ogni caso non ho nessuna intenzione di candidarmi. In questo momento di crisi voglio stare vicino ai cagliaritani e fare il sindaco della mia città. E poi penso che bisogna procedere secondo certe priorità. Prima dobbiamo dire che paese vogliamo, avere un programma di governo intorno al quale costruire la coalizione di centrosinistra, quindi, attraverso le primarie, bisogna permettere agli elettori di scegliere il nostro candida- to alla presidenza del consiglio, e poi allargarsi, aprirsi e chiedere il so- stegno di tanti cittadini. Non si può parlare di liste prima di svolgere questo percorso fino in fondo. Infine io sono di Sel e sostengo la mia lista, non altre.

De Magistris però sembra avere un’idea diversa.


Io parlo per me, ovviamente. Ognuno è libero di fare come meglio crede, se lui vuole fare una lista è libero di farla, ma per me è prematura, prima serve costruire un pro- getto per il paese.

Ma tra voi, sindaci arancioni, ne avrete pur parlato.


Abbiamo parlato di tante cose ma non di questa. Abbiamo ottimi rap- porti tra di noi, De Magistris mi ha anche invitato a Napoli per una bellissima iniziativa sui beni comuni.

Il modello «arancione», però, si basa proprio sull’apertura dei partiti alla cittadinanza attiva, su questo i sindaci saranno chiamati ad avere un ruolo?

Un conto è dire che i sindaci del centrosinistra siano chiamati a dare il loro contributo e sostengano i partiti della coalizione, questi partiti si devono aprire alla società e su questo fronte i sindaci hanno molto da dare, ben altra cosa è parlare di una lista dei sindaci.

Che cosa pensa del patto Bersani-Vendola?


Mi pare sia un bene che si parli di programmi per il futuro governo del centrosinistra.

Anche senza Idv e magari finendo al governo con l’Udc?

Con Di Pietro credo che Vendola stia facendo tutto il possibile per ricucire e penso che Italia dei valori sia a tutti gli effetti una forza del centrosinistra. Quanto a ritrovarsi al governo con l’Udc al momento mi sembra che questa ipotesi sia molto lontana.

Non tanto lontana, dopo l’apertura di Vendola.


Vendola ha già chiarito la questione. E poi non mi appassionano queste discussioni col bilancino che sommano algebricamente le forze politiche. Mancano di contenuto e non appassionano neppure i cittadini. Invece c’è bisogno di coinvolgere tutti quelli che si sono comprensibilmente allontanati dalla politica per gli atteggiamenti e i giochi di poteri di molti politici.

Ma appunto a questo servirebbe la lista dei sindaci, ad aprirsi alla società e a tutti i delusi dal centrosinistra che potrebbero votare Grillo, o sbaglio?

A Cagliari, come a Napoli e a Milano il centrosinistra è riuscito a coinvolgere i cittadini. Quel modello ha pagato. Abbiamo vinto. Ora si tratta di ripetere quell’esperienza a livello nazionale.

Il patto fra Sel-Pd e le aperture al – l’Udc non rischiano di frustrare questa voglia di partecipare? An – che molti sostenitori di Sel sono perplessi.

Infatti bisogna ragionare di altro, dei contenuti, di lavoro, occupazione, lotta alla precarietà. Su questi temi si riesce a dare entusiasmo e voglia di partecipare, e così si trasforma un’alleanza tra partiti in un progetto per il futuro del paese.

Le donne dell’Islam: Corri Tahmima Corri!!

La lettura di quest’articolo mi ha emozionato, non posso che dire anch’io: Corri Tahmima Corri!!

Da Il Manifesto del 4 agosto 2012 Matteo Patrono:

E’ durata poco più di un minuto la pri- ma volta di una donna saudita ai giochi ma ne è valsa la pena. Eccome. Ottandadue secondi per essere rovesciata sul tatami da un’avversaria molto più forte di lei, rialzarsi e confessare felice. «Ce l’ho fatta, che bello essere alle Olimpiadi». La partecipazione della judoka Wojdan Ali Seraj Abdulrahim Shahrkhani passerà alla storia come un momento altamente simbolico, non solo perché nel regno del Golfo le donne non possono lavorare, viaggiare, guidare, nemmeno andare all’ospedale senza il consenso di un parente maschile, figurarsi fare sport. Ma perché anche tutta la diatriba col Cio sullo hijab che la ragazza avrebbe dovuto indossare per volere del padre (pena il ritiro dai giochi), si è risolta alla fine con l’utilizzo di un copricapo elastico nero in tutto simile alle cuffie delle nuotatrici. Nessun velo insomma, quasi a rendere palese, volontariamente o meno, l’uguaglianza di tutte le donne dentro il recinto dei cinque cerchi. Fuori dal quale, la vita di Wojdan continuerà a essere piuttosto com- plicata, forse anche di più considerando il fastidio con cui gli oltranzisti religiosi del suo paese hanno accolto questa sfida. Ma il messaggio è passato e altre atlete saudite dopo di lei verranno, anzi sono già qui visto che assieme a Shahrkhani c’è anche Sa- rah Attar, una ottocentista che vive e si allena in America. E per la prima volta nella sto- ria dei giochi, ogni nazione ha almeno una rappresentante femminile in squadra. Oltreché simbolica, la partecipazione di Shahrkhani è stata anche totalmente plato- nica. Nel senso che per quanto robusta e ben piazzata, la judoka saudita è una cintu- ra blu alla sua prima gara internazionale e di fronte aveva invece una portoricana piut- tosto esperta, Melissa Mojica, 28 anni, cin- tura nera, numero 24 del mondo nella categoria 78 kg. Sull’età di Wojdan non v’è certezza: ufficialmente, per il Cio, ha 16 anni; il padre ha detto tra 17 e 18, per il sito della federazione saudita 19. A guardarla nel suo judogi di almeno un paio di misure più grande di lei, volto paffuto, sguardo spaesa- to, sembrava una ragazzina. Quando ieri mattina si è affacciata all’uscita del tunnel che immette nell’arena del judo all’ExCel Center, aveva alle spalle il fratello, un armadio compatto, che era lì per rassicurare la sorella, visibilmente emozionata. Un’aggiustata al copricapo, uno scambio di battute con la signorina del Cio e via verso il tatami, accolta dal saluto calo- roso del pubblico che sapeva che quello non era un incontro qualunque. Poi, giusto il tempo di sfiorare l’avversaria, rifilarle un calcetto, abbozzare invano una presa. Ap- pena quella l’ha acchiappata per il collo, Shahrkhani è stata messa ko dal più facile degli ippon. Il cronometro segnava 3.38 sui 5 minuti da combattere, lei si è alzata, ha ri- messo in ordine l’hijab, ha salutato giudi- ce, avversaria, pubblico ed è uscita di sce- na, presa per mano dall’addetta de per il braccio dal fratello.
Ovvio che ci fosse la ressa tra i media pertentare di avvicinarla prima del ritorno ne- gli spogliatoi. All’inizio ha sussurrato qual- che parola attraverso un dirigente della federazione saudita. «Sono orgogliosa di essere qui alle Olimpiadi a rappresentare il mio paese, grazie a tutti quelli che mi hanno sostenuta». Poi appena è arrivato il padre, si è sciolta un po’ di più. «Avevo molta paura, il pubblico per fortuna mi ha aiutato a supe- rarla. Queste sono occasioni che capitano una volta nella vita ed è un peccato non aver vinto la medaglia ma prima o poi ci riuscirò». Il padre Ali, un giudice di judo, era commosso. «Lo ammetto, ho pianto come un bambino. Non l’ho mai vista così sorri- dente, alla fine del match è venuta da me e mi ha detto: papà ce l’ho fatta». La ragazza allora ha mollato i freni. «Spero che questo possa essere l’inizio di una nuova era, mi piacerebbe diventare un punto di riferi- mento per le donne che vogliono fare sport». A quel punto il padre se l’è portata via, per evitare guai con Re Abdullah e non dover rispondere a domande sul velo della Discordia. «Lo hijab? Nessun problema», ha invece commentato l’avversaria portori- cana. «Era importante che la ragazza potesse gareggiare, indipendentemente dalla sua religione. Questo è il judo».Se le parole felici di Shahrkhani avranno mandato su tutte le furie chi a Riyad pensa sia un disonore per una donna combattere davanti a un pubblico maschile, quelle del- la velocista afghana Tahmina Kohistani devono aver fatto tremare i palazzi di Kabul e spiegano bene quanto sia ancora lunga la strada affinché l’Islam radicale accetti an- che solo l’idea di sport femminile. Kohistani, 23 anni, è l’unica atleta afghana presente a Londra e ieri, giorno d’esordio delle gare di atletica, è stata la più lenta nelle batte- rie dei 100. Eppure il suo tempo di 14.42 pare un trionfo se paragonato agli ostacoli che ha dovuto superare per venire ai giochi. «A casa mia c’è gente che fa di tutto per impedirmi di allenarmi. I tassisti si rifiutano di portarmi allo stadio, gli oltranzisti mi mole- stano mentre corro. Ma io sono qui e anche se so che non avrei mai potuto competere per una medaglia, è come se avessi vinto l’oro. Mi ero quasi dimenticata quanto sia bello correre davanti a tanta gente chef a il tifo per te». Pure lei ha corso con uno hijab sportivo, quasi un cappuccio che spuntava da sotto la maglia. «Mi spiace che il mio po- polo non apprezzi quello che faccio, lottare contro i pregiudizi è il modo migliore di rap- presentare l’Afghanistan. Le donne afghane che oggi non possono uscire di casa, un giorno saranno fiere di me e di avercela fat- ta anche loro. Io sto provando ad aprire la strada». Corri Tahmina, corri.

La sacralità del bene comune e dell’interesse pubblico

Pur nella convinzione di dire una ovvietà credo che nelle persone è diffusa una disaffezione per i beni comuni e per l’interesse pubblico. Ciò che mi sorprende è che accade a tutti i livelli. Ci sono, infatti, quelli che pensano che al di là dell’uscio della propria casa si possa fare di tutto buttare carte, lattine e bottiglie a terra, sputare, imbrattare i muri ed i monumenti, far fare i bisogni al proprio cane senza raccoglierli, spaccare panchine e fioriere e chi più ne ha più ne metta e, quelli che, invece, seppure, dotati di una superiore sensibilità sono comunque convinti che non c’è nulla da fare, quindi, tanto vale non impegnarsi neppure. Questi atteggiamenti credo siano legati sia alla scarsa sensibilità sia al cattivo esempio che spesso proviene proprio da coloro che, per un motivo o per un altro, dovrebbero avere a cuore e curare il bene e l’interesse pubblico.  Il bene pubblico, in quanto tale, è considerato per taluni, di nessuno, per altri un bene naturalmente soggetto al saccheggio.

Sport e politiche sociali due facce della stessa medaglia

Ieri (2 agosto 2012) in commissione ho esaminato insieme agli altri consiglieri lo schema di convenzione relativo alle piscine comunali costruite con la legge 219/1981. Sono sette piscine, il provvedimento può essere consultato su: https://gennaroespositoblog.com/2012/07/24/piscine-la-nuova-regolamentazione/

Ad ogni buon conto il pensiero che ho espresso è stato quello di fare in modo di spingere le associazioni sportive a praticare l’agonismo, questo non solo perché le medaglie sono di lustro alla città ma ancora di più perché l’agonismo rappresenta, secondo me, un ottimo intervento per indirizzare l’azione delle associazioni e società aggiudicatarie verso l’interesse pubblico e le politiche sociali. I campioni, infatti, oltre ad essere di vanto per la città sono anche da esempio per i ragazzi che si affacciano alle discipline sportive. Il meccanismo che ho proposto è stato quello di prevedere uno sconto premiale sui canoni di concessione a quelle associazioni concessionarie che hanno raggiunto risultati sportivi importanti. Così facendo credo si avrebbe la sicurezza che le associazioni si dedichino di più all’attività agonistica assicurando anche una azione sociale piuttosto che limitarsi ad affittare le corsie per semplice lucro. E’ chiaro che quello che ho pensato non rappresenta l’unico meccanismo e durante la commissione si è anche parlato di contributo in conto/canone alle associazioni concessionarie che fanno azioni sociali approvate dall’amministrazione. Sono, infatti, convinto che sport e politiche sociali sono due facce della stessa medaglia ed occorre un po’ inventarsi i meccanismi per fare in modo che gli impianti siano comunque destinati a fini pubblici e non semplicemente messi sul mercato.

L’oro a squadra del fioretto femminile da il Mattino di oggi 3 agosto 2012:

LONDRA. Era l’oro più atteso, ed è arrivato. Era una storia già scritta ed un trionfo annunciato, certo, ma è bellissima lo stesso. C’è chi adora le sorprese, ieri non sarebbero state gradite, c’era solo un’immensa voglia di straordinaria normalità. E che bellezza trovare sotto l’albero delle medaglie azzurre il regalo che aspettavamo. L’oro e la vendetta, perché quella semifinale persa quattro anni fa a Pechino proprio contro le russe bruciava ancora, da ieri un po’ meno.
Eh già, la storia siamo noi, sono loro, come sempre. Quattro anni fa avevano facce e storie diverse, si chiamavano Giovanna e Margherita, più la solita Valentina. Qui, adesso, ecco Elisa, Arianna e Ilaria assieme alla Vezzali, ma la missione era la stessa: portare acqua – e medaglie – al mulino azzurro. Loro, le ragazze del fioretto, il giacimento che non si esaurisce, quelle che non tradiscono, alle quali puoi chiedere tutto, e se la medaglia è di bronzo, come a Pechino, non va neanche troppo bene. Dal 1984 non scendiamo mai dal podio.
Siamo saliti all’ExCel, al mattino, quando tutto è cominciato con una passeggiata contro la Gran Bretagna (42-14), assieme a Patrizio Oliva, la leggenda del pugilato azzurro, perché qui, in questo immenso spazio sui Docklands di Londra, fra molte altre cose, si fa anche a pugni, e lui non aveva dubbi: «Queste l’oro lo vincono facile, fanno 45-0 con tutti, e se non lo vincono le mandiamo un po’ sul ring, per punizione». Non ce n’è stato bisogno. Del resto loro sono di un altro pianeta. Avevano fatto piazza pulita delle medaglie nel torneo individuale e ieri hanno spazzolato le avversarie. Anche la Francia è finita a pezzi, non ha vinto una sola delle nove sfide, e il 45-22 finale in 55’ spiega tutto.
Perché loro sono più forti anche della rivalità che le divide, della quale non fanno mistero, perché si scannano una contro l’altra, poi si rimettono assieme, e inventano persino una danza per divertirsi e stupire e farsi amico il dio delle lame. Hai voglia studiarle, provare a capirle, tutto inutile. Le signore del fioretto hanno sorrisi ed età diverse e in crescendo (24, 30, 38), sono poco più che ragazze o persino mamme; sono proprio diverse ma messe una accanto all’altra sono una cosa sola, un blocco di cemento, un muro di gomma contro il quale le avversarie sbattono e rimbalzano.
Anche le russe: «Sono quelle che temiamo di più, ci studiano da quattro anni, cercano di capire come possono batterci, ma non abbiamo paura, siamo le più forti» aveva detto la Errigo il giorno prima. Parole sante. Certo, non è stato il 45-0 che immaginava Oliva, ma è stato quasi facile, se si può dire così di una finale: un’altra prova di forza e talento, senza tentennamenti.
Il primo allungo è stato di Valentina, il secondo di Arianna, poi Elisa ha scavato il fossato per il più 9. Abbiamo vinto tutti i duelli, siamo schizzati a più 20, poi le russe hanno respirato un po’ quando Cerioni ha regalato un po’ di luce anche alla Salvatori (la frascatana può così festeggiare con le compagne), sono risalite a meno 13, ma Di Francisca ha rimesso le cose a posto e Valentina, proprio lei, ha chiuso il conto (con un +14), ci ha messo un po’, ma alla fine l’urlo è arrivato. Poi le ragazze hanno ballato mentre in tribuna sventolavano i tricolori, e uno lo hanno portato anche in pedana, un lembo a testa. Poi il podio, l’inno, l’orgoglio.
Così, l’esordiente Di Francisca torna a casa con due medaglie d’oro, l’esordiente Errigo con un oro e un argento, «la vecchia» Vezzali (pare la chiamino così, le altre due) con un oro e un bronzo, ma l’oro di ieri, il sesto in cinque Olimpiadi, spinge proprio la «vecchia» nel paradiso dei più grandi di sempre e queste tre donne molto italiane nella storia, per sempre.

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