La lettera di Raffaele Del Giudice

Di seguito la lettera di Raffaele De Giudice di oggi (26.07.2012) su il Corriere del Mezzogiorno, dalla lettura della quale si apprendono molti dati utili. Raffaele nelle lettera fa appello al senso civico dei cittadini. Io ogni tanto, tra il serio ed il faceto (più serio) vado dicendo che dovrebbero mettersi dei cartelloni pubblicitari nei quali scrivere ad esempio “Strunz’ chi getta le carte a terra” o anche peggio  … ma  rischierei di trascendere. E’ ovvio che non penso di risolvere così tutti i problemi, però, io da qualche anno per evitare di andare in depressione con le crisi dei rifiuti, quando assisto ad un episodio di maleducazione  non mi faccio mai mancare l’occasione per riprendere il malcapitato. Certo, cerco di usare l’ironia per evitare di essere visto come quello che sale sul piedistallo, parlo, se è il caso (non sempre), in napoletano e cerco di entrare in comunicazione con le persone “scostumate”. L’ultimo episodio è stato ieri l’altro in via verdi qundo in compagnia dei consiglieri Molisso e Iannello, ho notato un gruppetto di signore (credo BROS) di cui una, abbastanza corposa, che si è preso il compito di asciugare0 la panchina dell’acqua (aveva piovuto) e poi ha gettao due fazzoletti a terra. A quest’atto ho detto subito: “Signò e che diavolo vi buttate le carte proprio nterra e pier vuost e llà ce stà o cestin”. Ovviamento l’ho detto con il sorrisetto e questa non ha potuto evitare di sorridere e rispondere “e che diavolo guardat’ propri’ a mme” ed io di rimando “e vvui state proprio annanze a me a chi lo devo dire”, a questo la signora coruplenta ha risposto “e vabbè avit’ raggion mo e pigli e e vaca a iettà” e li ha raccolti e buttati nel cestino. Dopo questa cosa non ho potuto fare a meno di dire: “bbrava v’aggia abbraccia” e me la sono abbracciata. A questa cosa anche Carlo Iannello ha detto: “BBrava” e la signora ha prontamente risposto ridendo: “Né ma mo me vulit’ abbraccià pure vuj”. Questo per dire e sperare che di strada ce ne da fare e che si può fare … Aspettiamo i cartelloni, anzi si potrebbe fare un concorso …

La lettera di Raffaele a cui non posso non dire Bravo!!

Caro direttore, la riflessione di Isaia Sales sulla «scomparsa degli spazzini», pubblicata dal Corriere del Mezzogiorno del 18 luglio scorso, stimola ragionamenti e chiede spiegazioni che è doveroso corrispondere. Tre aspetti del suo pensiero non mi convincono, sebbene non siano dirimenti. Non condivido il richiamo al passato, quale assetto ideale dell’azione di igiene urbana, come non condivido la critica alle società di gestione dei servizi pubblici, considerate un diaframma tra la buona volontà amministrativa e il generoso impegno del netturbino. L’una e l’altra affermazione hanno il loro rovescio: nel passato i netturbini erano «servi della gerba», taluno portatore di dignità e coscienza di classe, più spesso lazzari senza l’una e l’altra.
Anch’io ho conosciuto gli spazzini di quaranta anni fa, che salivano a piedi cinque piani di scale con la gerba sulle spalle per chiedere alle famiglie l’immondizia. Erano uomini (e solo uomini) abbrutiti dalla fatica, spesso analfabeti, mal pagati e che si ammalavano presto. Non ho nostalgia di quel tempo, anche se il processo di emancipazione di quei proletari è talora debordato negli eccessi sindacali ed in una malintesa «protezione sociale». D’altra parte, in tutto il mondo i servizi di igiene urbana sono offerti alle città da imprese specializzate. In Italia le gestioni dirette dei Comuni sono state superate, perché inefficienti, dispendiose e spesso condizionate da pratiche politiche non sopportabili. Le imprese pubbliche, magari nel Mezzogiorno, non hanno ancora acquisito il profilo di quelle del Nord del Paese, dove i servizi di igiene urbana sono abbastanza efficienti, efficaci ed economicamente sostenibili, ma questo è un punto di domanda da soddisfare con analisi e valutazioni specifiche, non certo preferendo il ritorno all’«assessore capo servizio» che comandava i netturbini secondo logiche, paternalistiche e politiche, di dubbia modernità. La terza considerazione, che osservo come poco convincente, è quella che rimette il senso civico, la responsabilità della tutela del bene comune e la difesa dello spirito di comunità unicamente nelle mani degli spazzini e della loro azienda. Una parte dei napoletani sporca la città, considerandola «di nessuno», così come parcheggia in tripla fila o irride a regole banali di civile convivenza. Gli spazi pubblici sono di nessuno, quindi si possono rapinare del verde, sporcare, degradare a piacimento. In attesa che questa parte di popolazione si ravveda, gli spazzini devono provvedere. È ovvio che devono farlo, ma non si può non denunciare l’alto livello di disamore che una parte rilevante della popolazione ha verso la propria città, perché Napoli non si sporca da sola.
Il tasso di educazione civica, di coscienza e di senso di appartenenza a una comunità è troppo basso, è evidente a tutti. Ma serve più impegno nel sollecitare le buone pratiche civili, sanzionare i disobbedienti cronici, incentivare i buoni comportamenti. Se si rinuncia a questo impegno culturale e civile, «in attesa» che le persone indisciplinate si ravvedano, non avremo mai spazzini e poliziotti a sufficienza. Ciò detto, il servizio di spazzamento della città è insufficiente, per quantità e qualità. La prima ragione per cui ciò accade è determinata dalla densità di popolazione per chilometro quadrato, che a Napoli è tra le più elevate del mondo. In un fazzoletto di terra risiedono e vivono un milione di persone di cui una parte, fortunatamente minoritaria, si libera dei rifiuti gettandoli per terra. Molta gente in poco spazio, quindi molti rifiuti gettati per terra e che si devono raccogliere. La gran parte delle vie del centro storico dovrebbe essere presidiata permanentemente da un servizio di spazzamento e rimozione, almeno per venti ore ogni giorno e magari da netturbini giovani, lesti nel lavoro ed avvezzi alla relazione con il pubblico. Non è ora possibile che questo accada, per la scarsità di risorse economiche e per l’impossibilità di assumere giovani. Il divieto di assunzioni e l’allungamento del tempo di lavoro per persone che avrebbero meritato la pensione, per le aziende pubbliche si traduce in un invecchiamento dei propri operai, talvolta logorati e molto anziani e, dunque, in una più bassa produttività. In numero, i nostri operai sono pochi (540 spazzini), molti (il17%) sono malati o limitati nelle mansioni, la loro età media è di 58 anni, di cui almeno trenta trascorsi sulla strada ad «alzare munnezza».
Asia sta cercando di meccanizzare il più possibile lo spazzamento delle strade, sia per risparmiare sul costo del lavoro che per generare più efficienza (abbiamo solo 22 spazzatrici meccaniche di cui molte in manutenzione e la manutenzione costa). Abbiamo redatto un piano di esodi incentivati di lavoratori esausti, ma non potremmo comunque sostituire gli anziani in uscita con giovani leve, a causa dei divieti della «spending review». Situazione imbarazzante, lo ammettiamo. Servirebbero più e migliori servizi e ogni giorno, però, siamo risucchiati dall’angoscia di assicurare quelli minimi, con pochi soldi ed enormi difficoltà organizzative. Il «piano per lo spazzamento» del 1999 prevedeva l’impiego di 1000 spazzini per pulire Napoli in modo efficace. Fino al 2002, in effetti, la città era servita da un numero sufficiente di uomini e risultava più pulita di quanto non lo sia oggi. Con le ricorrenti emergenze è accaduto proprio quello che tu hai notato e cioè che vi è stata una traslazione d’interesse, per la popolazione come per la politica, per il Comune e per l’Asia, tutti ossessionati dal liberare le strade dai sacchetti d’immondizia. Per la municipalizzata, la traslazione ha comportato la necessità di assegnare più uomini alla rimozione dei sacchetti, togliendoli ai servizi di spazzamento, poiché nuove assunzioni non si potevano fare. Nel 2001 gli addetti alla gestione dei rifiuti di Napoli erano 3.212 mentre oggi sono 2.489. Con l’avvio dei sistemi di raccolta differenziata «porta a porta» nel 2008, che richiedono più manovalanza rispetto allo svuotamento di cassonetti e campane stradali per la differenziata, il fenomeno di erosione degli spazzini è ancora più accentuato. Gli spazzini sono diminuiti mentre si fatica a mantenere in efficiente servizio il parco-macchine di pulizia di cui avremmo bisogno.
La situazione è, dunque, molto difficile soprattutto a causa delle risorse economiche insufficienti. In attesa di avere più soldi, per finanziare la meccanizzazione dei servizi di igiene e per incentivare la quiescenza di maestranze anziane (sperando di poterle sostituire con un po’ di giovani, ragazzi e ragazze) stiamo cercando di riparare con interventi a basso costo (più capienti cestini da disporre nelle vie, premi incentivanti la produttività individuale e la riduzione di costo dell’orario straordinario, più programmi di educazione nelle scuole, miglior impiego delle spazzatrici ora attrezzate anche per il lavaggio delle strade…), ma certo servirebbe molto di più. Per questo, se ogni napoletano evitasse di lasciare a terra una delle dieci cartacce che «normalmente» getta al suolo, il beneficio per tutti sarebbe immediato, visibile e, soprattutto, gratis. Poi la città deve essere pulita dagli spazzini, non vi è dubbio. Ma non si deve rinunciare mai a chiedere un poco di collaborazione. Non costa nulla e tutti ne guadagneremmo.
* Presidente di Asia

Legalità e famiglia un’altra riflessione di Aldo Masullo

Come sempre le riflessioni di Aldo Masullo sollecitano approfondimenti sulla società napoletana nella quale viviamo e sono sicuramente una chiave di lettura per comprendere meglio gli accadimenti dei quali è d’obbligo un approfondimento per giungere alle cause e non restare in “superfice”.

Da Il Mattino del 24 luglio 2012

Aldo Masullo

Illustre e gentile Ministro della Giustizia, a un napoletano per sua fortuna non imputabile di aver taciuto, avendo troppe volte pubblicamente detto e scritto sulla “Napoli immobile”, possa dalla Sua cortesia esser consentita qualche osservazione sui giudizi tanto accorati quanto autorevoli da Lei formulati in un’intervista apparsa ieri su questo giornale. Nelle sue risposte all’intervistatore si colgono due centrali punti di critica: l’inerzia diffusa dinanzi alla violenza della microcriminalità e l’assenza delle famiglie nel dotare le coscienze giovanili di «anticorpi rispetto alla criminalità». Sul primo punto, Lei comprensibilmente «resta senza parole» quando legge delle pattuglie di poliziotti aggredite da una folla compiacente per proteggere ladri». E ammonisce che «occorre quello scatto di orgoglio vero, trasversale e non circoscritto nell’orticello delle persone cosiddette per bene», che in Sicilia dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino, si espresse in «un moto spontaneo dal basso, dai giovani e dalle loro famiglie». Invece, Lei aggiunge, «a Napoli è ancora notte fonda per la presa di coscienza forte nel dire “no” a ogni forma di criminalità e di violenza». In tutti questi casi certamente si tratta di grave patologia sociale. Però purtroppo la patologia non è una sola, ma sono almeno due e assai diverse patologie. Nel caso della Sicilia si trattò dell’aperta dichiarazione di guerra della grande criminalità organizzata, percepita come una terribile e oltraggiosa minaccia a un popolo intero, che si trovò così di fronte dalla devastante verità da cui fino ad allora si era protetta soltanto rifiutandosi di vederla. Gli sconcertanti episodi di assalti alla polizia in alcuni quartieri di Napoli sono tutt’altra cosa: sono gli esiti di una cultura lazzaronesca e camorristica, che persiste alimentata come avamposto visibile dell’invisibile grande criminalità: in questo caso non c’entrano risposte attive dei pacifici cittadini, bensì la semplice energia di legittimo contrasto, con cui lo Stato deve educare anche i più riottosi a rispettarlo. Sul secondo e forse più dolente punto, Lei richiama la diserzione educativa delle famiglie. Qui consento pienamente con Lei, ma – mi permetta – con una precisazione, che ci consentirà poi di mettere a fuoco non tanto il problema della criminalità, su cui sembra concentrarsi la Sua attenzione di eminente penalista, quanto su ciò che, io credo, in fondo più fortemente La preoccupa: il problema della legalità. Purtroppo negli strati della popolazione di meno esibita ma spesso più acuta povertà, le famiglie non vogliono disertare, ma sono deboli, spesso impotenti, perché i giovani e i giovanissimi sono sempre più irresistibilmente catturati dai suggestivi miti e dai potenti meccanismi del totalitarismo consumistico, che li macina come in un frullatore di desideri e di fuorvianti occasioni. Né peraltro si può logicamente pretendere che forniscano anticorpi morali le non poche famiglie che purtroppo proprio solo dei corpi immorali sanno nutrirsi. Il Suo discorso sulla funzione della famiglia è dunque, gentile Ministro, destinato a una parte delle famiglie, il che del resto avviene a Napoli come dovunque nel nostro confuso tempo. Ma a quelle famiglie, che ben sono nelle condizioni per essere richiamate alla loro funzione formativa, è superfluo chiedere di educare contro le scelte criminali. Invece fondamentale è esigere che esse abbiano cura di suscitare, innanzitutto con l’esempio, il rigoroso senso della legalità. Dall’onestà fiscale e professionale del padre all’onestà scolastica del figlio, dalla veracità nei rapporti domestici alla franchezza (la parresia degli antichi Greci) dinanzi ai potenti, dal rifiuto della protezione nelle gare della vita al rifiuto della raccomandazione nelle prove scolastiche, nel crogiuolo della famiglia prende stabile forma la cultura della legalità. Una società tanto più si sviluppa civilmente, quanto più nel suo corpo è capillare l’esercizio della legalità. Quanto poi la cultura generalizzata e capillare della legalità influisca sulla stessa circoscritta ma esplosiva questione della criminalità, Lei ieri, nella pienezza delle Sue funzioni ministeriali e in vissuto confronto con la Sua sapienza giuridica, immagino l’abbia ancora una volta sperimentato nella visita al carcere di Poggioreale. In questi ultimi anni sono state incessanti le meritorie iniziative di Marco Pannella e dei radicali per richiamare l’opinione pubblica e le istituzioni politiche sulla gravissima lesione dei diritti civili dei detenuti, costretti alle torture del sovraffollamento carcerario. Io credo che, dietro certe incomprensibili resistenze al superamento dell’incivile situazione, operi, come sempre nella vita storica, una irrisolta arretratezza culturale. Walter Benjamin, come Lei c’insegna, nel celebre saggio del 1926 sostenne che il diritto è in ultima analisi violenza, intendendosi per violenza la pura e semplice forza. In quest’ottica la pena è un «castigo», una sofferenza arbitrariamente inflitta per aver disubbidito a un qualsiasi comando arbitrario, come al capriccio di qualche dea nei miti pagani. La pena, subìta come castigo, è un residuo estraneo alla modernità civile. Se la cultura della protezione è l’opposto della cultura del diritto, la cultura del castigo è a sua volta l’opposto della cultura della ragione sanzionatoria, la quale convoca il responsabile a riparare il danno prodotto. Oggi il carcere, non solo a Napoli, è di fatto ancora inteso, nonostante tutto, come lo strumento del castigo. Come tale, esso è incivile in linea di fatto per l’attuale sovraffollamento, ma lo è innanzitutto in linea di principio perché, togliendo all’uomo non solo la libertà ma quel che più propriamente lo realizza nella sua dignità, cioè la creatività del lavoro elettivo, mortifica la persona e ai suoi occhi finisce per trasformarla da colpevole in vittima. E non è forse, alla radice dei mali sociali di Napoli, la secolare scarsità di lavoro ? Mi perdoni, gentile Ministro, ma a questo punto comincia un altro discorso. La ringrazio.

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