Magistrati e Politica

ingroiaOggi (12.06.2013) su vari giornali sono apparse due notizie che riguardano due casi di magistrati che si sono dati alla politica molto distanti tra loro: Carofiglio ed Ingroia. La magistratura fa parte della società civile da cui la politica può attingere per rinvigorirsi, eppure i due ruoli in particolare oggi non mi sembrano così lontani. Da qualche tempo, infatti, in consiglio comunale dico che i politici devono essere, per certi versi, come i magistrati non solo essere imparziali ma anche apparire tali e ciò ancora di più quando le risorse sono poche e non si può correre il rischio di ripartirle in modo non equo privilegiando amici di partito e parenti. La Giustizia sociale oggi è reclamata in ogni settore della PA e l’imparzialità è un valore irrinunciabile, per questo credo che se un magistrato ritorna ad indossare la toga non può permettersi di apparire di parte schierandosi politicamente in prima linea. Occorre cautela!
Dal Corriere della Sera del 12.06.2013
Carofiglio lascia la toga: voglio dire cosa penso e nei panni del giudice non avrei potuto farlo
 ROMA — La politica attiva l’aveva lasciata cinque mesi fa, quando decise di non ricandidarsi al Parlamento. E adesso che doveva rientrare in magistratura e prendere possesso della destinazione assegnatagli — giudice a Benevento —, Gianrico Carofiglio abbandona anche la toga. A 52 anni appena compiuti, di cui 22 trascorsi negli uffici giudiziari e gli ultimi 5 in Senato, sui banchi del Pd, resta uno scrittore di successo, impegnato nella cosiddetta «società civile». «È stata una decisione difficile ma necessaria — spiega — perché non potevo più svolgere la mia funzione con la dignità e l’impegno necessari, come ritengo di aver sempre fatto». Qual è la ragione dell’improvvisa incompatibilità? «Prima facevo il magistrato e scrivevo libri nel tempo libero, ora quel ruolo è divenuto predominante e dovrei fare il magistrato nel tempo libero, tra la scrittura, un convegno, la presentazione di un libro. Non sarebbe dignitoso». I cinque anni passati in Parlamento col centrosinistra non c’entrano? «Sì e no. In questo periodo ho imparato ad avere una libertà di espressione che facendo il magistrato non potrei più esercitare; giustamente, peraltro. Ci sono degli obblighi di riservatezza che chi veste la toga deve osservare, e sinceramente non mi va di rinunciare a dire quello che penso. Non solo come politico, ma anche come cittadino che ha a cuore la vita collettiva. Perciò me ne vado. Penso pure che i magistrati non siano cittadini di serie B, e dunque abbiano diritto di tornare a fare il loro lavoro una volta usciti dal Parlamento, come tutti. Rispettando delle regole, però». Quali? «A parte quelle imposte dalla legge e dal Csm, come il cambio di sede e di funzioni, credo che quando uno rientra debba farlo senza tentennamenti, tornando a immergersi nel proprio ruolo. Ogni cittadino ha diritto di trovarsi di fronte un giudice che fa solo il giudice, senza pensare ad altro. I rientri perplessi, mentre si continua a fare politica in maniera più o meno esplicita, non mi piacciono». Sta criticando qualche suo collega che è rimasto a metà strada? «Dico che non si può rimanere con un piede in politica e uno in magistratura». La sua decisione di lasciare la toga sottintende qualche critica alla magistratura? «Devo ammettere che negli uffici giudiziari si respira un clima di burocratizzazione e spirito impiegatizio che in parte è figlio del conflitto con la politica. La sfiducia reciproca tra i due mondi ha prodotto un arroccamento dei magistrati sulle proprie posizioni. Insieme al contrasto pressoché permanente col potere politico s’è instaurata una visione del ruolo molto incentrata sui carichi di lavoro, anche per timore di procedimenti disciplinari, che non mi entusiasma». A proposito di conflitto tra magistratura e politica, ora che è uscito da entrambi i ranghi in che posizione si colloca? «L’anomalia berlusconiana ha prodotto i guasti che tutti ormai riconoscono e di cui continuiamo a pagare le conseguenze. Detto questo, s’è instaurato un clima di diffidenza, una contrapposizione quasi culturale che in parte è fisiologica, ma in parte no. Ne sono derivate iniziative legislative, ma a volte anche giudiziarie, poco commendevoli. Negli anni in cui sono stato senatore ho registrato un clima di sospetto nei miei confronti, da parte dei colleghi magistrati, quasi pregiudiziale, che mi ha lasciato molto perplesso». E la politica? Perché l’ha lasciata? «A parte il fatto che non si fa politica solo in Parlamento, ho rifiutato di partecipare a quella falsa prova di democrazia interna che sono state le primarie per le candidature alla Camera e al Senato. Giusto farle per posti di responsabilità diretta e a elezione diretta, come quello di sindaco, ma per il resto mi sono parse un’operazione molto discutibile. Sono state il primo errore del Pd, di cui continuo ad essere un elettore, proseguito con l’incapacità di comunicare le scelte politiche. Io immagino che un messaggio politico, oltre che credibile, debba essere semplice, inatteso, concreto, sorprendente e capace di produrre emozioni. Purtroppo Bersani, che sarebbe stato un ottimo presidente del Consiglio, era solo credibile. Per questo abbiamo perso». Però le comunali di domenica e lunedì sono andate meglio. «Sono molto contento di questo risultato, ma sarebbe un ulteriore errore per il Pd pensare che tutti i problemi siano risolti. Non lo sono affatto. Può sembrare un luogo comune, ma penso che questa vittoria sia un’opportunità che non va sprecata». Giovanni Bianconi
«Ingroia fa politica» Iniziativa disciplinare
 ROMA — Continua a fare politica. Con questa motivazione il procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani, ha aperto un’azione disciplinare nei confronti dell’ex procuratore aggiunto di Palermo e leader di Azione civile, Antonio Ingroia. «Non mi sorprende», commenta il magistrato. «L’amarezza vera è invece venuta dalla decisione, che considero politica, presa a suo tempo dal Csm, quando mi destinò alla procura di Aosta». Ormai è una telenovela. È la terza volta che il pg avvia il procedimento nei confronti dell’ex pm del processo sulla trattativa Stato-Mafia, che dopo essere stato protagonista di un duro scontro giuridico con il Quirinale sulle telefonate intercettate del presidente Napolitano e dopo aver lasciato il processo per un incarico Onu in Guatemala, si è presentato alle elezioni come candidato premier di Rivoluzione civile. Non eletto, al ritorno dall’aspettativa, il Csm lo ha destinato ad Aosta. Decisione impugnata di fronte al Tar dal magistrato che continua a guidare il suo movimento. A «denunciare» la prosecuzione della sua attività politica era stata proprio il procuratore di Aosta, Marilinda Mineccia. Da lì l’avvio della pratica, secondo la riforma dell’ordinamento giudiziario che ha reso illecito il «coinvolgimento nelle attività di centri politici» che possono «condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato». «È l’effetto della segnalazione del procuratore di Aosta», ha spiegato Ingroia, «non mi sorprende né amareggia».

Riforma della giustizia – L’idea che non muore

CassazioneNon occorre aggiungere altro! Dall’editoriale L’idea che non muore, in La Magistratura, 15 gennaio 1926: “L’Associazione dei Magistrati si è sciolta. Questo era il suo dovere dopo l’approvazione della legge sui sindacati alla Camera dei Deputati. Con questo numero. La Magistratura sospende le sue pubblicazioni. È un passo che compiamo con tristezza profonda: non si spendono 15 anni in un’opera di sacrificio, senza che questa divenga, alla fine, parte integrante della nostra persona e della nostra vita e si leghi a noi, fibra a fibra, in piena solidarietà di fortuna; non si vive anni ed anni in intima consuetudine di pensiero e di opere con tanti amici e collaboratori, senza avvertire, al distacco improvviso, lo strappo doloroso dei tessuti giovani e vitali, non logorati dal tempo e refrattari per prova a qualsiasi bacillo di dissoluzione. Noi siano dunque tristi, come, certo, tutti coloro che, non senza qualche sacrificio e qualche degna prova di coraggio, ci hanno seguiti nel faticoso cammino, perché noi tutti amammo l’Associazione nostra come si amano gli ideali in cui davvero si crede: per se stessa, per quello che essa rappresentava nel rinnovamento della giustizia italiana, al di sopra delle persone e dei loro interessi. La nostra tristezza è grande: ma serena. Non rancori, non rimpianti, non il morso di inquietitudine morale. È un placido tramonto primaverile che chiude una feconda giornata: l’operaio raccoglie con mano ancora vigorosa gli strumenti di lavoro, guarda tutt’intorno il suo campo, come ad accarezzare, nell’attimo del commiato, ogni fil d’erba germogliato dal suo sudore e, sulla via del ritorno, dimentica gli stenti e l’aspra fatica del giorno nella anticipata visione delle rigogliose messi che verranno. È questo il suo premio, questo il miracolo delle sue forze che ogni giorno si rinnovano, delle sue speranze che rinascono ad ogni colpo della delusione; della sua fede nella vittoria all’indomani stesso della sconfitta più disperante. Il lavoro è la sua croce e la sua gioia, la fede è la sua forza e tutto il suo premio. Quest’operaio è come il Giusto del Vangelo: sempre pronto al combattimento, come alla morte, eguale alle gioie ed al dolore, ai trionfi come alle sconfitte; perché, a rigore, sconfitte e trionfi non sono che l’apparenza, quando tutta la storia e tutto il progresso dell’umanità dimostrano che non una sola goccia di sudore cadde mai invano dalla fronte dell’uomo e che neppure una volta sola le opere della fede furono destinate alla sterilità ed alla morte. L’una cosa che davvero uccide è la grettezza morale ed il disonore; è l’egoismo degli uomini che profana la santità delle idee e prostituisce la fede nel compromesso. Ma noi non conoscemmo queste ombre di umanità crepuscolare: la nostra fine ne è il documento indiscutibile. Forse, con un po’ più di “comprensione” – come eufemisticamente suol dirsi – non ci sarebbe stato impossibile organizzarci una piccola vita senza gravi dilemmi e senza rischi: una piccola vita soffusa di tepide burette, al sicuro dalle intemperie e protetta dalla nobiltà di qualche satrapia. Forse si poteva  non morire, od anche vivacchiare non inutilmente come agenzia di collocamento per gli affamati di nuovi posti o come sanatorio per gli affetti da “onorite” cronica. Ma, per divenire eremita, persino il diavolo aspettò ad invecchiare: ci si consentirà che, per divenire diavoli, sia egualmente necessaria una certa dose di decrepitezza morale, e cioè un certo progressivo allenamento a giocare con la propria anima come si fa con le vesciche di majale aggrinzite: il che non è affare di un giorno, di un mese o di un anno. L’Associazione era troppo giovane, vegeta ed assetata di vita, per trasformarsi in un’agenzia o in un sanatorioLa mezzafede non è il nostro forte; la “vita a comando” è troppo complessa per spiriti semplici come i nostri. Ecco perché abbiamo preferito morire. Era la sola maniera per tramandare intatta l’eredità morale della nostra Associazione. Perché questa eredità c’è, è vistosissima e nessuno ha il potere di distruggerla. L’edificio edificato in quindici anni occupa nell’anima della giovane magistratura un posto infinitamente più largo ed importante di quello, per verità modestissimo, che la povertà dei nostri mezzi e l’avversità delle vicende consentirono di occupare esteriormente nella vita italiana. Questo edificio è racchiuso tutto in una parola: l’indipendenza della magistratura, come base d’indipendenza della giustizia. È di quelle parole semplici, che una volta penetrate nell’animo di un uomo o di un popolo, sono destinate a trasformarsi in una forza dominante ed incoercibile. Or noi non ci illudiamo di avere radicato nello spirito italiano l’esigenza di una giustizia indipendente; ma siamo sicuri che di questa esigenza vive ormai la giovane magistratura la quale fu sempre la forza vera del nostro sodalizio e tra noi educò una fierezza nuova nell’esercizio della funzione giudiziaria e diede, nonostante i tempi e gli ordinamenti, esempi indimenticabili di dirittura e di indipendenza. È un’esigenza, che nessuno potrebbe sradicare, tanto essa è legata fibra a fibra con tutte le aspirazioni, i propositi e gli studi vigorosi, che rendono feconda e bella la giovinezza: è tutta una vita, tutta una conquista. Nessuno ha il potere di addormentare mai più anime, su cui sia caduto il raggio di una tal luce. È come il biblico frutto proibito: “qui en a touchè, en touchera”. La nostra fine consacra questa grande eredità morale, nella quale è, per noi, tutta la consolazione e tutto il premio di quest’ora triste. L’Italia avrà giorni felici, come noi speriamo, o tristi: la giustizia italiana rifulgerà di nuova luce o decadrà nel politicantismo. Nessun può far prognostici. Ma una fede ferma ci sorregge in fondo all’animo: che tutto ciò che è saldamente edificato nel cuore degli uomini è inviolabile ed indistruttibile.

Regio decreto 16 dicembre 1926*

Vittorio Emanuele III

Re d’Italia

PER GRAZIA DI DIO E PER VOLONTÀ DELLA NAZIONE

Ritenuto che il Consigliere della Corte di Cassazione, Saverio Brigante, il Sostituto Procuratore Generale di Corte di Appello Roberto Cirillo, i giudici Occhiuto  Filippo Alfredo e Chieppa Vincenzo ed il Sostituto Procuratore del Re Macaluso Giovanni sono stati i principali e più attivi dirigenti dell’Associazione Generale tra i Magistrati Italiani; 

Ritenuto che ad opera di essi l’Associazione assunse un indirizzo antistatale, sovvertitore della disciplina e della dignità dell’Ordine giudiziario, che fu propagandato a mezzo del periodico di classe “La Magistratura” dai medesimi redatto e

pubblicato;

Ritenuto che tale indirizzo sostanzialmente venne mantenuto anche dopo l’avvento del Governo Nazionale, che essi avversarono criticandone astiosamente gli atti, nonché facendo insinuazioni ed affermazioni di pretese ingiustizie e persecuzioni personali tanto da incorrere in reiterate diffide ufficiali;

Ritenuto che solo per normale ossequio alla Legge sui sindacati essi deliberarono lo scioglimento dell’Associazione, la soppressione del periodico e la liquidazione della Cooperativa (a suo tempo creata per fornire stabile sede all’Associazione), ma in sostanza mantennero saldi i vincoli associativi mediante atti simulati continuando, tra l’altro: la pubblicazione del giornale sotto il nuovo titolo “La Giustizia Italiana” da essi ugualmente redatto, che si ostinò nell’avversione al Governo sino ad incorrere nel novembre scorso, dopo reiterate diffide, nella soppressione ordinata dall’autorità politica;

Ritenuto che per le manifestazioni compiute i magistrati suddetti non offrono garanzie di un fedele adempimento nei loro doveri di ufficio e si sono posti in

condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del Governo;

Viste le giustificazioni presentate dagli interessati;

Visto l’art. I° della legge 24 dicembre 1925 n. 2300;

Sentito il Consiglio dei Ministri;

Sulla proposta del Nostro Guardasigilli Ministro Segretario di Stato per la Giustizia e gli Affari di Culto;

Abbiamo decretato e decretiamo

Chieppa Vincenzo – giudice – ed altri

sono dispensati dal servizio, a decorrere dal 31 dicembre 1926, ai sensi dell’art.

I° della Legge 24 dicembre 1925 n. 2300.

Il Nostro Guardasigilli Ministro anzidetto è incaricato dell’esecuzione del presente

Decreto.

Dato in Roma addì 16 dicembre 1926

F.to Vittorio Emanuele

Controfirmato: Mussolini

“ : Rocco

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