Donne Antifasciste

Intervista ad Alba Spina

Intervista raccolta da Gladys Motta il 13 ottobre 1986 a Biella, nell’ambito della ricerca sugli antifascisti della provincia. Della testimonianza, rilasciata sotto forma di storia di vita, pubblichiamo esclusivamente gli stralci riguardanti l’esperienza dell’antifascismo clandestino.
Da  “l’impegno”, a. VIII, n. 3, dicembre 1988
© Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.

Come inizia la tua militanza antifascista, o meglio, ancor prima, come nasce questa idea in te?

La mia idea è nata quando sono entrata in fabbrica, giovanissima, perché vedevo in casa la ristrettezza […] avevo 13 anni e allora ero contenta di finire le scuole, la quinta classe elementare, non ho altre scuole. E allora subito mi son fatta fare i libretti di lavoro e sono andata in una fabbrica di Chiavazza come annodatrice e portatrice di trama per le tessitrici. Portavo trama, annodavo, imparavo ad annodare in un magazzino dove c’erano dei grossi sacchi di tela juta con dentro i residui della pulizia dei telai e anche i rifiuti della colazione delle operaie: ricordo che c’erano dei topi enormi. Comunque agli inizi ero ancora entusiasta di lavorare e di guadagnare qualcosa, poi, piano piano ho cominciato a capire tante cose, a vedere come ti trattavano, che si lavorava come delle bestie e al minimo sbaglio erano multe e insulti e io questo non lo accettavo. Non potevo sopportare che si insultasse la gente, se c’era da riprendere per un errore era una cosa, ma si poteva farlo senza insultare.
A me le cose giuste sono quelle che colpiscono, invece quando si è maltrattati, quando si è sfruttati, allora reagisco, e così ho reagito. Mi chiedevo sempre: “Possibile che non ci sia niente in difesa di chi lavora?”. C’era già il sindacato fascista, ma era come se non ci fosse niente e allora gira, cerca… Avevo vent’anni.

Che ruolo ha avuto la tua famiglia nella maturazione della tua convinzione sociale e politica?

Un ruolo importante, ma anche pieno di contraddizioni. Comunque i miei erano antifascisti ed avevano già partecipato agli scioperi anche prima che salisse il fascismo e dopo han continuato. Mi ricordo che a Chiavazza c’erano delle famiglie che non è che fossero fasciste, erano crumiri, povera gente venuta dal Vercellese per andare a lavorare in fabbrica. Ecco: queste persone, quando si trattava di fare delle lotte non scioperavano e io mi ricordo che da piccola andavo con i miei nel cortile e quando arrivavano i crumiri si battevano le latte per dire loro che erano incoscienti, che tradivano la classe cui appartenevano. Ma questo era prima che salissero al potere i fascisti […]. I miei erano antifascisti, però sapevo che non avrebbero preso bene se avessero saputo che andavo alle riunioni clandestine; difatti io ho sempre cercato di tenere nascosto; quando poi l’hanno saputo troppe me ne han dette.

Quali sono stati i tuoi primi contatti?

A quel tempo avevo una simpatia che abitava lì nel mio cortile e si parlava spesso di cose generiche ma io avevo sempre questa cosa nella testa. Sapevo di Novaretti Valentino, che abitava anche lui a Chiavazza, lì nelle vicinanze, ma tutti mi dicevano: “Mah, questo qui è mezzo matto, non è un tipo rassicurante”, non so perché lo dicevano, forse perché era studioso, chi lo sa; gli altri erano tutti che non si interessavano di letture, di niente.
Nel settembre del 1931, mentre andavo a fare delle commissioni, passando per la provinciale, vicino al cimitero di Chiavazza, ho visto tanti piccoli volantini di tanti colori, sparsi per terra. Allora sono scesa dalla bicicletta, li ho raccolti e ho visto che c’era scritto che la Confederazione generale del lavoro invitava gli operai a reagire ai soprusi e ad unirsi per migliorare i salari e per abbattere il fascismo. Alla sera, quando ho trovato questo ragazzo, Ernesto Crosa, gli ho detto: “Sai cosa ho trovato ‘sta mattina? Guarda ‘sti volantini, sai chi li ha buttati? Perché allora vuol dire che c’è qualcuno che fa qualcosa”. E lui mi ha detto: “Siamo noi, siamo comunisti”. “E allora – ho detto – voglio conoscerne altri, voglio essere anch’io tra la schiera di quelli che possono fare qualche cosa per combattere questo stato di cose”. Allora lui mi ha detto: “Guarda, te lo dico perché sei giovane, davanti c’è solo galera, e il fascismo purtroppo andrà avanti per tanti anni ancora”. “E invece io voglio esserlo – ho detto – non so chi e quanti siete, ma dì ai tuoi amici che voglio essere anch’io tra voi”. Lui ne ha parlato agli altri e, appunto nel settembre del ’31, sono entrata nel Partito comunista.
Mi hanno messo in contatto con il Giuseppe Mosca, che fungeva da capogruppo, perché c’erano come dei compartimenti stagni nel partito, in modo che se qualcuno cadeva [nelle mani della polizia fascista] si troncasse la catena e gli arresti riguardassero solo quel gruppo lì. Ricordo che alla mia prima riunione c’era Amalia Campagnolo, che è stata poi confinata. Questa prima riunione si è svolta al cimitero di Chiavazza.
Poi mi hanno fatto conoscere il Mosca Severo di Occhieppo Superiore (che è stato poi in seguito fucilato dai tedeschi). Allora era lui il nostro capogruppo; quando ci riunivamo solo noi, due o tre di Chiavazza, veniva invece Pino Mosca. Ad ogni modo ci davamo da fare: a casa dell’Amalia Campagnolo si preparava una specie di pappetta che poi si stendeva… che si usava per preparare i volantini. C’era anche un opuscolo che spiegava i modi rudimentali di fare ‘sti volantini: si faceva in stampatello la copia e poi se ne tiravano diverse copie, certo non era come adesso. Ad ogni modo si diffondevano ‘sti volantini: per i problemi della fabbrica, sugli interessi locali, per i salari, per le condizioni di lavoro e di vita degli operai, ecc.

Tu sapevi di rischiare il carcere, e anche per molti anni: che cosa ti dava la forza e la convinzione…

È difficile da dire, ma direi che c’era anche tanta ribellione e … tanta speranza di poter cambiare le cose. Quando parlavo in fabbrica mi chiamavano rivoluzionaria, invece io allora non sapevo niente di politica: era ribellione, solo ribellione. Che poi era solo quell’istinto di cambiare la società, no, tutte le altre cose poi sarebbero venute di conseguenza, come dare una vita decente e la possibilità ai lavoratori di comprarsi un paio di scarpe quando mancavano e di avere un paio di calze, di avere una bicicletta per andare a lavorare, che facevi un’ora di strada per andare e una per tornare, quando bastava. Ovvio che non c’erano certezze. C’era la certezza solo di dover scansare l’Ovra, la polizia, per durare un po’ di più, perché sapevi che ogni tanto c’erano retate.

C’è invece un momento in cui tu approfondisci la tua convinzione da un punto di vista più strettamente politico?

Ad un certo punto ho cominciato a leggere libri di argomento sociale che mi passava Novaretti e lì cominciavo a capire di più. Leggevo “La madre”, “I miserabili”, “Il tallone di ferro”, libri più consistenti, no, perché non è che mi piacessero tanto le novelle. Andavo in biblioteca e cercavo i libri di Dostoiewsky o di Tolstoj e ricordo che mi avevano colpito molto.

Di che cosa discutevate durante le riunioni clandestine?

C’era una funzionaria, Bianca si chiamava, non ricordo il cognome, che era venuta dalla Francia e aveva portato anche materiale; poi è venuto Bonomi di Trieste, appunto per organizzare il nostro gruppo. Si discuteva sulle direttive che venivano impartite dal Centro clandestino del Partito.

C’erano delle differenze fra uomo e donna nella militanza antifascista?

Per tanti aspetti era uguale. Per altri no; a casa appunto dicevano: “Cosa può interessarti, sei una donna e come tale non devi interessarti di niente; a te piace vestirti bene, allora cerca di vestirti bene, di comprare quanto ti occorre e di divertirti”. Era difficile far capire che anche per quelle cose era necessario lottare, per avere paghe migliori e una vita più dignitosa. Anche essere come dicevano loro non era facile. C’erano quelle calze di rayon che costavano una lira, facevi tre passi per andare a lavorare ed eran già tutte smagliate.
Era dura per le donne allora. Vedevi in fabbrica ‘ste donne che erano sposate: al lunedì o già la sera di domenica incominciavano a mettere a bagno le robe e poi andavano a strofinarle per pulirle. Poi facevano bucato martedì, mercoledì lo stendevano, giovedì lo stiravano, venerdì lo rammendavano ed era ora di ricominciare da capo. Ma loro erano rassegnate così.

Restando alle donne, nel Biellese c’era un gruppo piuttosto consistente di antifasciste…

Devo dire che allora io non ne conoscevo quasi nessuna. Anna Pavignano l’ho conosciuta dopo che sono rientrata dal confino, perché era in Francia in quel periodo. Giulia Mosca era al confino, Ergenite Gili e Francesca Corona erano in carcere e in carcere era andata anche la Pavignano. Iside Viana era già morta in prigione a Perugia e anche Giorgina Rossetti l’ho conosciuta dopo la caduta del fascismo.

Quali sono state le circostanze che ti hanno portato all’espatrio clandestino?

Verso il mese di novembre del 1932 è risultato che ero stata individuata e che rischiavo di essere arrestata: naturalmente dovevo cercare di scappare; ricordo che, per non compromettere gli altri, alle ultime riunioni avevo dovuto partecipare facendo lunghi giri per arrivare al posto convenuto e perlopiù passavo in aperta campagna. Nino Nannetti, nel frattempo, aveva scritto al Partito, avvertendo della situazione e della necessità del mio espatrio; nel mentre io ho fatto le fotografie per il passaporto: era una cosa pericolosa anche quella, perché la Questura controllava tutto.
Il 4 novembre mi sono messa d’accordo con Nannetti che avrebbe dovuto portarmi via: avevamo scelto il 4 novembre perché essendo un giorno di festa e non dovendo andare a lavorare guadagnavo un giorno rispetto alle ricerche che la polizia fascista avrebbe subito scatenato. Da Biella sono andata a Borgo Ticino, a casa della famiglia Sculatti, una famiglia di operai, e sono rimasta lì quindici giorni in attesa che arrivasse il passaporto falso. Il 24 novembre sono partita per Parigi. Il passaporto era spagnolo, mi chiamavo Isabel Ramarez, risultavo istitutrice e viaggiavo per trovare un lavoro.
Purtroppo però, si è poi saputo che al Centro estero del Partito c’era stata un’infiltrazione di spie e la polizia fascista di frontiera sapeva quindi che i passaporti spagnoli erano sospetti. Quando sono arrivata alla frontiera sono saliti gli agenti e ho dovuto consegnare il passaporto; dopo circa un quarto d’ora sono tornati e mi hanno chiesto dove andavo e per quale ragione: io l’ho spiegato, ma loro mi hanno risposto: “No, lei non va in Francia per lavoro e il suo passaporto non dice niente di buono”. Poi mi hanno fatto scendere e mi hanno portato al Commissariato di Domodossola. Ricordo che lì mi hanno detto: “È fortunata che l’abbiamo presa mentre usciva, se l’avessimo presa quando rientrava, con il doppiofondo della borsa pieno di documenti sovversivi la sua situazione sarebbe stata molto più grave, andava dritta al Tribunale speciale”.

Sei stata a Domodossola, poi t’hanno portata a Milano, poi a Vercelli…

Sì. A Milano perché io avevo detto che ero stata a Milano: per allontanare le tracce da Borgo Ticino, avevo detto nelle campagne di Milano. Naturalmente continuavo a dire che uscivo per lavoro. E che il passaporto l’avevo avuto da uno che avevo incontrato e che lo seguivo, andavo in Francia per trovarci perché forse… Insomma, ho fatto credere che ci fosse qualcosa fra noi. Non mi hanno creduto, invece hanno scritto che espatriavo per ragioni politiche, che espatriavo per i comunisti, ad ogni modo io mi sono rifiutata di firmare il verbale. Era una della cose che ci insegnavano nelle riunioni clandestine: non firmare mai niente.
Era sera quando m’hanno arrestato, saranno state le 10 o le 11, perché, appunto, gli Sculatti m’avevano accompagnato fino ad Arona, avrei dovuto viaggiare tutta la notte e arrivare al mattino alla Gare de Lyon, dove i compagni m’aspettavano. Invece ho passato la notte al Commissariato di Domodossola. Al mattino sono venuti a prendermi e m’hanno portato appunto in carcere a Milano. Poi mi hanno trasferita a Vercelli.

Quanto sei rimasta in carcere?

Mi hanno arrestata il 24 novembre, e quasi subito sono stata trasferita a Vercelli: è lì che mi sono ammalata. Non mangiavi che quella sbobba, non c’era niente. Mi ricordo che c’era la guardiana, la povera Rita, che era una vecchia socialista: le avevo fatto un cuscino e allora mi portava mezzo bicchierino di caffellatte, ma, poveraccia (anche lei era povera, non aveva niente), non poteva darmi di più e io poi il cuscino lo avevo fatto volentieri, mi aiutava a passare il tempo.
Sempre a proposito del carcere, mi ricordo che qualche volta venivano arrestate quelle povere ragazze, allora le chiamavano serve, che erano nei cascinali. Me ne ricordo una, si chiamava Maria, e, poveraccia, dove lavorava non le davano niente e lei si aggiustava come poteva: magari prendeva qualche uovo dal pollaio, invece di consegnarne venti ne consegnava diciassette e poi le vendeva a qualcuno, ma il paese era piccolo e han fatto presto a scoprirla e arrestarla. Poi mi ricordo anche una ragazza che si era ribellata alla matrigna, che poi l’han mandata addirittura in Corte d’assise dicendo che voleva uccidere, invece non aveva neppure la forza di tenere il coltello in mano, altro che uccidere la matrigna.

Quando sei stata sottoposta alla Commissione per il confino?

Era passato praticamente tutto l’inverno, era verso febbraio.

Avevi rapporti con la tua famiglia o con il tuo partito mentre eri in carcere?

Nessuno. È venuto giusto mio padre, accompagnato da mio cugino, quando ho scritto che mi mandavano al confino per tre anni. Anche di Ernesto Crosa non sapevo più niente: dato che era ammalato, era poi andato al sanatorio.

Quando sei partita per Ponza?

Verso metà marzo. So che a Vercelli faceva ancora freddo, arrivata ad Alessandria, con il cellulare, ci hanno portato, io e altri detenuti comuni, in un carcere freddissimo. Sono stata lì due giorni e le uniche persone che sentivo attorno a me erano quasi tutte prostitute. Ma non è nemmeno che potessimo parlare, loro erano giù ed io ero sopra una specie di balconata.
Quando siamo partiti dalla stazione di Alessandria saremo stati una ventina di detenuti, con il vestito a strisce. Di donna c’ero solo io, in mezzo ai carabinieri, separata dagli uomini. Da Alessandria siamo andati a Genova: lì almeno c’era il sole, ti sembrava già di riprendere vita. Ho passato la notte in carcere ed il giorno dopo sono ripartita per la tappa successiva: Pisa; anche lì, come negli altri posti, quando arrivavo io avevano già distribuito quel poco da mangiare e io restavo regolarmente senza.
Mentre ero a Pisa è arrivato l’ordine che i detenuti politici dovevano viaggiare in transito straordinario, e non più nel cellulare con tutti gli altri. Così il giorno dopo sono ripartita da sola; a Poggioreale sono arrivata a mezzanotte, i carabinieri mi hanno consegnata e senza troppe formalità mi hanno chiuso in una cella. Al mattino alle 7 danno la sveglia e la mia compagna di cella, una anziana, mi dice: “Non farti vedere, non farti vedere”. “Perché?”. “Perché, dato che ti hanno arrestata questa notte, finisce che ti mettono sotto, dove ci sono le reginelle”, che erano poi le prostitute. Quando è poi passata la suora, dopo cinque o sei giorni, le ho chiesto se c’erano altre detenute politiche e se era possibile stare con loro, così mi hanno messa al quarto piano, dove finalmente ho trovato altre donne con la mia stessa idea. Certo anche loro si tenevano abbottonate, non sapevano chi ero, mai poi siamo riuscite a parlare. In carcere a Poggioreale sono stata un bel po’, infatti sono poi partita per Ponza che era primavera.
Arrivata a Ponza al pomeriggio ho visto tutti i confinati appoggiati al parapetto: non conoscevo nessuno lì. Ho arrancato con la mia valigia in mezzo ai carabinieri, poi qualcuno mi ha chiesto: “Di dove sei?”. “Di Biella”. “Confinata politica?”. “Sì”. Lì c’era già Finotto, era verso la fine del confino, e allora gli han detto subito che c’era una comunista che arrivava da Biella. Lui però era scettico, non mi aveva conosciuta e non sapeva nemmeno chi ero.
Comunque i carabinieri mi han portato in direzione, il direttore mi ha consegnato il libretto di permanenza, un libretto bordeaux da tenere sempre in tasca; poi mi ha detto che dovevo rispondere all’appello mattino e pomeriggio; che dovevo trovare una camera da affittare nel limite del confino. Io ero sola, in un posto dove non conoscevo nessuno ed ero preoccupata, ma lui mi ha fatto capire che mi avrebbero aiutato gli altri confinati.
Finotto è poi venuto, si è avvicinato, mi ha chiesto chi conoscevo, io sapevo che lui lavorava nella stessa fabbrica dove avevo lavorato io all’inizio e che era stato arrestato perché faceva lavoro politico, allora gli ho detto: Pino Mosca, il Severo Mosca di Occhieppo e altri, che lui non conosceva affatto perché erano antifascisti che erano arrivati dopo il suo arresto. A quei tempi, prima di fidarsi si stava molto attenti, per via delle spie. Finotto so che era poi riuscito ad avere informazioni su di me dal Centro estero del Partito e solo allora, dopo quasi due mesi, sono stata accettata in pieno. Dopo lo chiamavano anzi il mio tutore perché ero giovane: avevo ventidue anni e lì c’erano molti compagni giovani e soli, in una condizione morale che è facile da immaginare.

Al confino potevate discutere fra di voi di politica, cosa facevate?

Nei limiti del regolamento cercavamo di trovarci a piccolissimi gruppi e migliorare la cultura e la conoscenza politica. Per tanti era un’occasione di fare un vero e proprio “abc” politico; in genere c’era un capogruppo, io avevo Giordano Pratolongo.

Com’erano le condizioni di vita?

Le condizioni di vita erano balorde perché avevamo 5 lire al giorno per mangiare, per vestirci, comperare il sapone, far aggiustare le scarpe, che fra l’altro si rompevano subito perché le stradine dell’isola erano tutta ghiaia.
Poi c’erano tutte le restrizioni: ad un certo punto c’è addirittura stata una protesta dei confinati e abbiamo restituito tutti i libretti di permanenza. La protesta è nata perché non potevamo camminare più di tre assieme, non lasciavano più affittare camerette per studiare (i confinati le affittavano in quattro o cinque). Poi quando si passeggiava bisognava stare attenti perché infilavano delle spie. Comunque per tutta una serie di ragioni abbiamo restituito i libretti e siamo finiti tutti sotto processo. Durante la notte è arrivata la nave da Napoli e ci han caricati tutti. Era giugno del 1933; il processo, se non sbaglio, ce l’han fatto a luglio: eravamo sette donne; in totale, con gli altri, eravamo centocinquanta. Ci hanno condannati a quattro mesi di carcere per ribellione alla direttiva emessa da Roma. Così abbiamo fatto quattro mesi di carcere a Poggioreale. Finita la pena dovevamo ritornare all’isola.

Fino a quando sei rimasta a Ponza?

Fino a marzo del ’34.

Il ritorno a casa com’è stato? La reazione della gente?

È stata… figurati nel ’34, era ancora il buono del fascismo e allora nessuno più ti salutava. È venuto a salutarmi solo uno che vendeva penne al mercato e aveva un bugigattolo dove faceva il barbiere a Chiavazza, l’unico che m’ha fermato a salutarmi. Poi la mia migliore amica; tutti gli altri giravano al largo, ma proprio come da una lebbrosa.

Tu immaginavi o sapevi di essere vigilata, dopo il tuo ritorno?

Oh, certo, perché quelli non ti mollavano. C’era ancora l’Ovra come prima e quindi… Bisognava fare molta attenzione. Finotto ad esempio brontolava perché io andavo a trovare dei compagni e lui invece me lo proibiva.

Quindi tu hai vissuto un momento di profonda solitudine, quando sei tornata a casa.

Sì. In famiglia non potevo parlare perché da una mezza parola in su mi chiedevano se non mi bastava quello che avevo già avuto. Ernesto Crosa ormai era morto: avevo trovato suo padre proprio il giorno che tornavo dal confino e mi aveva detto che aveva la meningite tubercolare. Sono andata a trovarlo, mi ha riconosciuto appena e dopo tre giorni è morto.
Poi quando sono andata io al dispensario e mi han detto che ero ammalata di tubercolosi, che ho preso per la gran fame e il freddo in carcere e a Ponza, e che dovevo fare i documenti per andare al sanatorio è stato il culmine. Figurarsi, nel 1934 la tbc era un disastro, quella malattia spaventava. Così non ho detto niente a nessuno.

Dopo il tuo rientro e fino alla Resistenza hai poi comunque svolto attività antifascista?

Sì, ma non come avrei voluto; del resto gli ostacoli erano tanti e il problema della sicurezza della rete clandestina era serio.
Io avrei poi dovuto tentare di nuovo di espatriare, nel ’36. Avevo già pronto il documento, ho salutato Anna Pavignano nella strada della fabbrica dei Sella, perché il giorno dopo dovevo partire clandestinamente. Invece i miei, che dovevano aver capito qualcosa, avevano frugato dappertutto fra la mia roba fino a quando hanno trovato il passaporto e l’hanno distrutto; così non ho potuto partire e ho perso un’occasione che non si ripeteva facilmente. Così son rimasta in Italia a fare quel che potevo.

Non hai mai avuto rimpianti, ripensamenti?

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