Da Repubblica Napoli del 28.09.1993, Giuseppe D’Avanzo. E’ impressionante la lettura di quest’articolo. Un atto di accusa alla borghesia napoletana che mi sembra ancora oggi divisa in due, da una parte quella ladrona dall’altra quella latitante, scoraggiata o consapevole della sua incapacità di incidere sul tessuto sociale attraverso il suo coinvolgimento politico.
NAPOLI MILIONARIA BORGHESIA FALSARIA
NAPOLI – Sei giovani napoletani su dieci – sostiene un recente sondaggio Eura – sono convinti che occorre una “raccomandazione” per poter agguantare un posto di lavoro. La percentuale raggiunge l’ ottantotto per cento nel caso di “giovani studenti” appartenenti a famiglie di un livello culturale più alto ed economico più abbiente, dove pure dovrebbe avere una qualche attrazione il principio delle capacità personali. Per quasi il cinquanta per cento di questi giovanotti è il politico l’ uomo più adatto a dire la parolina acconcia che risolve il problema del reddito. Il sociologo si mette le mani nei capelli. “Questi dati fanno venire i brividi – si lamenta Domenico De Masi. – Dietro questi numeri si nasconde una verità: Napoli ha il futuro pregiudicato per i prossimi cinquanta anni. Non c’ è possibilità di redenzione, la città è destinata a rimanere ferma. Anzi solo a peggiorare, con il tempo. Il campione del sondaggio si riferisce a giovani tra i 20 e i 29 anni. Si tratta di persone che comunque hanno raggiunto una propria maturità: difficilmente cambieranno ormai modo di pensare. E si tratta della società appunto dei prossimi cinquanta anni se si tiene conto dell’ età media di un individuo. Mi chiedo: quali dati sarebbero saltati fuori qualche mese prima di Tangentopoli? Avremmo avuto il cento per cento?”. Chissà. In una qualsiasi mattina di settembre a vederlo andare lentamente per le vie del quartiere di Chiaia il giovin borghese napoletano sembra senza pensieri, appena sfiorato dal dramma della città che ne infastidisce la passeggiata e l’ ozio con il troppo rumore e il poco spazio. Il giovin signore è solitamente allegro, sorridente, elegantemente vestito, la scarpa inglese, la bella cravatta di seta, ha il braccialetto d’ oro al polso destro, l’ orologio d’ oro al polso sinistro, non manca qualche profumata goccia di Pennaligon’ s (o quello che è) e non si è negato un’ abbronzatura con i riflessi dell’ oro brunito. Sciama per via dei Mille, via Filangieri, affolla piazza Amedeo, beve l’ aperitivo a piazza dei Martiri. Chiaia è il suo regno, come è stato il dominio dei suoi genitori, come lo sarà dei suoi figli. Qualcuno ha detto che Napoli è l’ unica città mediorientale senza quartiere occidentale. Non è vero. Chiaia è il quartiere occidentale della città, l’ unico pensato, progettato e costruito per la cosiddetta “alta borghesia”, un’ isola che ha resistito senza irreparabili offese ai carogneschi interventi del secondo dopoguerra, del famelico laurismo, del barbaro gavismo, dell’ onnivoro pomicinismo. Da tre secoli Chiaia può vantare architetture d’ autore, dal vanvitelliano Palazzo Calabritto al novecentismo essenziale e non retorico di Stefania Filo Speziale passando per le gemme d’ art nouveau di Giulio Ulisse Arata. Ma che importa! Il giovin borghese non pare curarsi di bugnati e modanature. E’ difficile trovarne uno – ti raccontano i più pessimisti – che abbia mai alzato gli occhi sulla scala elissoidale di Palazzo Mannajuolo o si sia interessato, incuriosito appena, della Palazzina Velardi o del Villino Galante. Va a Chiaia, il giovin signore, per consumare, vedere e farsi vedere. Sono le vetrine opulente e griffate, qualche bar alla moda, un paio di ristoranti l’ attuale segno distintivo del quartiere, come il segno distintivo delle convinzioni del giovin signore è la certezza che, in un modo o in un altro, ce la farà. Come? Si sa. Dal sondaggio. “Borghesia lazzarona!”. C’ è a Napoli chi la disprezza, chi volentieri si abbandona all’ invettiva liberatoria. E’ il caso di Domenico Rea. “Questa specie di borghesia che ha oppresso Napoli, questa gentuccia con materiali di pensieri e di lingua da analfabeta di ritorno, questa gentaccia che non si sa perché, condividendone i gusti, ha la pretesa di distinguersi dalla plebaglia mentre l’ unica plebaglia di Napoli è proprio questa borghesia di costruttori che ha messo i soldi, esentasse, in Svizzera o in Bot”. Il focoso don Mimì, non è il solo, per carità. All’ invettiva esasperata – è un esempio – si abbandona anche chi ha conosciuto, tra i banchi del liceo Umberto, Raffaele Perrone Capano, un “ragazzo di Chiaia”: “‘ nu fetente cchiu fetente e ‘ nu fetente nato fetente perché era nato bene da persone perbene ed è diventato ‘ nu fetente cchiu fetente ‘ e ‘ nu fetente”. La storia di Raffaele Perrone Capano vale la pena di essere raccontata anche perché è riuscito nella non facile impresa di farsi odiare più di Paolo Cirino Pomicino, ancor più di Francesco De Lorenzo che, si sa, ora vengono accolti in ogni angolo della città dal grido “Mariuoli!”. Perrone Capano, ordinario di Scienza delle Finanze, liberale di cultura e di partito, è il rampollo di una stimata famiglia borghese e laica. Segni caratteristici: moralizzatore integerrimo, ambientalista irriducibile. Consigliere della Fondazione Banco di Napoli, azionista di maggioranza del Banco di Napoli spa, picchiava i pugni sul tavolo per impedire che il comitato della Fondazione stabilisse l’ ammontare dell’ assegno da passare ai consiglieri della Spa. Cioè, a se stessi. Assessore provinciale all’ Ambiente, portava l’ Enel in tribunale per i livelli di anidride solforosa liberati dalla centrale elettrica. Ammiratissimo, il Perrone Capano. Si diceva di lui: “Eccolo finalmente il borghese che non delega ai politici l’ amministrazione della città. Ecco un borghese che non ha il pregiudizio che sia meglio disinteressarsi della politica e conservare la propria rispettabilità. Ecco finalmente un uomo che non si chiama fuori, che fa le sue battaglie, che le canta chiare”. Solo che… Stato e mercato annullati dalla politica Solo che un giorno si scopre che ‘ o professore, come lo chiamavano i suoi impresentabili amici, era in combutta con due capicamorra – Francesco Schiavone, detto “Sandokan”, e Francesco Bidognetti, latitante – per fare della Campania la pattumiera d’ Italia. In cambio di 25 lire al chilo, Raffaele Perrone Capano aveva autorizzato, in violazione di ogni regola, le imprese dei due “galantuomini” a ricevere immondizia e residui tossici da ogni angolo del Paese. Per il periodo dell’ affare, si sono scaricate a Napoli duemila tonnellate di rifiuti al giorno e Perrone Capano ha incassato, chilo dopo chilo, 25 lire su 25 lire, dieci milioni la settimana. Insomma, “nu fetente che s’ è venduto non solo il presente della sua città, ma s’ è mangiato anche il futuro dei suoi e dei miei figli”, si scalda il compagno di liceo. Che la borghesia napoletana non fosse proprio quella immaginata dai rivoluzionari del ‘ 99, lo aveva ben capito uno scrittore svizzero capitato da queste parti alla fine del secolo scorso. Marco Monnier osservava con meraviglia – lo ricorda Croce nella sua “Storia del Regno di Napoli” – che “a Napoli non c’ erano che due classi, les lettrés et le peuple, e che la borghesia non lettrée, industriale e commerciale, semplicemente non esisteva”. Il fatto è che anche quella lettrée, in quest’ anno denso di eventi come l’ anno del giudizio, ha la febbra alta. C’ è stato, e c’ è ancora, a Napoli un Partito della Cultura sovvenzionato con larghezza dal sistema politico che ai politici ha regalato l’ alibi di una città in caduta libera per moralità, civiltà, organizzazione sociale – è vero – ma in prezioso volo verso le vette del pensiero. “Città del sole filosofico” dove i pensatori di tutto il mondo potevano raccogliersi per discutere di “Ermeneutica come fine della coscienza metafisica della filosofia”, di “Fallibilismo, teoria della verità basata sul consenso”. Il gran sacerdote di questo rito è stato Antonio Villani. Anche la sua storia non guasta raccontare perché dimostra come perfino nel mondo culturale “siano stati sconficcati i cardini dell’ ordine morale”. Dunque. Antonio Villani, 69 anni, allievo di Croce, lettore a Tubinga, di casa a Heidelberg, filosofo del diritto, è stato il motore della vita culturale napoletana dal suo studio di Rettore dell’ Istituto Suor Orsola Benincasa, organizzatore, con cadenza settimanale, di un convegno con protagonisti dai nomi prestigiosi in ogni canto del mondo provvisto di una libreria. Popper, Gadamer, Habermas, Ricoeur, Eco, Rawls, Garaets, Belaval. Pubblico non sempre numeroso, ma sempre assorto. “Nell’ estremo disincanto di Napoli – andava sospirando Villani – la filosofia è l’ unico incanto”. “In una città – affermava sicuro – dove tutti si ingannano a vicenda e si autoingannano, dove si è perso il centro delle cose, questi convegni servono a formare e a orientarsi. Come dicevano i nostri antichi, la scienza cataloga, la filosofia capisce”. Alla corte di Villani – una seicentesca cittadella monastica di edifici, chiostri, cappelle e giardini d’ arancio con annessi museo (150 dipinti) e biblioteca (120mila volumi) – tutti accorrevano come a un Partenone. Solo che… Solo che Villani era un copione. Sì, un copione, un mago del plagio. Un giorno s’ è scoperto che per lo meno cinque pietre miliari della sua produzione scientifica – da “Topica e sistematica nella giurisprudenza” a “La critica di Hegel al dover essere” – non erano altro che copie conformi e tradotte di saggi precedentemente pubblicati su riviste tedesche. Caduto nella polvere, ora si dice coram populo che lo studioso di Hegel, l’ efficientissimo manager della cultura ha sempre beneficiato di troppo generosi finanziamenti pubblici, che non ha mai abbandonato l’ Opus Dei e lesinato affetto e voti alla Democrazia Cristiana e ai suoi padrini-padroni – Gava e Pomicino su tutti – che l’ hanno ricompensato chiudendo e facendo chiudere un occhio sulle molte illegalità del Suor Orsola. Unico istituto universitario parificato. che, nel suo organigramma, non prevede la presenza di almeno tre docenti di ruolo e che, nonostante ciò, elargisce lauree e diplomi. L’ unico luogo, il Suor Orsola, dove gli occhiuti giudici della Corte dei Conti non hanno mai avuto accesso per verificare (se non per controllare) dove e come finisse il pubblico denaro. Con questi esempi – vien da dire – c’ è poco da censurare il giovin borghese che, protetto dall’ anonimato del sondaggio, sputa il rospo e senza tanti giri di parole ammette la sua sfiducia. Ma è proprio qui – pare – il nocciolo della questione borghese di Napoli. E’ nella fiducia che manca o nella sfiducia che c’ è, che è la stessa cosa e comunque non robetta da trascurare. Nella attuali condizioni della città è ben difficile dubitare della razionalità di procurarsi a Napoli un padrino politico. Avveniva anche ai tempi di Saredo quando “dall’ industriale ricco che voglia aprirsi la strada nel campo politico o amministrativo… al professionista desideroso della clientela d’ un istituto o d’ un corpo morale… tutti trovano dinanzi a loro l’ interposta persona e tutti o quasi se ne servono”. Il disastro sociale, la disfatta pubblica, la mutilazione della città non è stata ancora sufficiente a scoraggiare i napoletani – borghesi in testa – a cambiar registro. “Noi educatori abbiamo molte responsabilità – dice padre Clemente Russo, gesuita, rettore dell’ Istituto Pontano dove si forma una bella fetta di classe dirigente d’ una città dove 60 mila ragazzi evadono l’ obbligo scolastico – Il primo passo per un rinnovamento morale e sociale di Napoli va fatto nella scuola dove maggiore deve essere l’ attenzione a un insegnamento che educhi alla legalità, alla solidarietà, all’ impegno civile”. Ma come, nel breve periodo, è possibile rendere conveniente e utile la correttezza privata e pubblica? ‘ O professore e i suoi amici della camorra Oggi Napoli scioglie il suo destino intorno alla questione della fiducia, essenziale e modernizzante risorsa che – spiegano gli scienziati sociali – diventa un comportamento diffuso solo a partire dallo stimolo dei processi di mercato e dalle norme (e sanzioni) imposte dallo Stato. Se hanno ragione loro, non è saggio coltivare illusioni. A Napoli manca uno Stato capace di imporre regole eguali per tutti perché la politica finora ha privatizzato ogni bene pubblico, pubblico servizio, pubblica risorsa. Manca un mercato che mostri la necessità di vincoli produttivi e di comportamenti etici perché è un mercato, come dice l’ economista Mariano D’ Antonio, che è stato “creato dalla politica”. E allora? E allora val la pena di sentire un’ ultima voce, la voce di Gabriella Gribaudi, napoletana di adozione, torinese di nascita, storico di mestiere con cattedra a Bari, venuta a Napoli con una borsa di studio nell’ istituto di Manlio Rossi Doria e rimasta appiccicata alla città come una cozza allo scoglio. Guai a chiederle se pensa di andarsene. “No, non me ne andrò. Ho rifiutato in tante occasioni che oggi non ne ho più voglia e non ne vedo più le ragioni. Mi sento napoletana a tutti gli effetti. In una città come Torino non riuscirei più a vivere. E poi sono convinta che questa città può farcela, ma deve farcela da sola. C’ è una condizione perché ciò avvenga: deve essere, diciamo così, abbandonata alle sue sole forze. Va interrotta la politica del sostegno al reddito, bisogna modificare la struttura delle opportunità oggi tutte nelle mani dei mediatori politici… Ecco, bisogna togliere questo ruolo agli amministratori e ai politici eliminando l’ oggetto della mediazione. Solo così finalmente sarà stanata quella parte di borghesia che ha preferito restare estranea alle sorti della città, solo così potrà nascere qualche elemento di Stato e di mercato”. La speranza di Gabriella Gribaudi ha il presupposto antico che, come si augurava Benedetto Croce, nella borghesia napoletana si radichi “il sentimento che il miglior pregio della vita non è dato dagli arricchimenti e dagli onori… ma dal produrre un nuovo e più alto costume, dal modificare in meglio la società in mezzo a cui si vive”. Accadrà davvero? Un fatto è certo: se non ora, quando?
Caro Gennaro, Giorgio Bocca in “Napoli siamo noi” parlava di napoletanità complice e napoletanità indignata ma inattiva; speravamo nello sviluppo di una napoletanità critica e propositiva, ma la lucida analisi di Carlo Iannello su La Repubblica di oggi non ci lascia speranze.
"Mi piace""Mi piace"
Sono stanco di sentire sempre ingiurie sulla mia città, perchè nessuno ricorda che tre volte nella storia questa città ha avuto una borghesia del commercio, la prima con la Magna Grecia, poi arrivarono i romani che la fecero tornare indietro nel tempo, Orazio docet, la seconda dopo il ducato, che coincise anche con l’affermazione di Amalfi, arrivarono i Normanni che instaurarono il feudalesimo, nonostante ciò, Napoli successivamente entrò a far parte, unica città del mediterraneo, della lega delle città anseatiche, che certamente era formata da borghesi dediti al commercio che si confrontavano con il mercato, ed infine con l’arrivo dei piemontesi, arrivati dopo 127 anni, in cui era stata una grande capitale, seconda forse solamente a Londra e Parigi,è arrivata la spinta più forte verso il declino, ancor più dolorosa perchè venuta da chi diceva di essere venuto per liberla dall’oppressore, con personaggi del calibro di Carlo Bombrini, che con il risparmio dei meridionali ha finanziato l’industria del nord, vedi Ansaldo, ed ha pronunziato la frase: non dovranno più intraprendere!
"Mi piace""Mi piace"