Il concorso di Toponomastica femminile viene dopo un Convegno sulla toponomastica (clikka) e dopo un percorso amministrativo (clikka) a valle del quale siamo riusciti anche ad eleggere all’interno della Commissione per la toponomastica Giuliana Cacciapuoti che ci ha aiutato a comprendere il tema di genere sulla attribuzione degli odonimi alle strade. Molto costruttivo ed interessante il rapporto con i ragazzi. Il 17 aprile 2013, presso la sala del Consiglio Comunale, abbiamo celebrato la premiazione del primo concorso di Toponomastica femminile. Bella partecipazione vivace dei giovani studenti e mi sono emozionato per alcune biografie, in particolare quella di Rita Atria.
Ecco i vincitori:
Categoria profilo biografico locale :
– Liceo Linguistico Istituto T. Campanella — Professor Livio Miccoli per la biografia di Enrichetta Caracciolo .
Categoria profilo biografico nazionale:
– Liceo Linguistico Istituto T. Campanella — Professoressa Daniela Esposito, per la biografia di Rita Atria.
Categoria profilo biografico internazionale:
- Istituto per i servizi turistici A.Serra — Professoressa Cinzia Azzalini -per la biografia di Hannah Arendt .
Ecco le biografie:
Rita Atria
“Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi c’impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”
Le parole di una giovane ragazza dall’aspetto esile e dolce, dai capelli ed occhi neri, neri come tanti dei suoi giorni passati per combattere la mafia, neri come i lutti che ha dovuto subire e neri come il mondo in cui ha vissuto. Esile e dolce ma con una grande forza di combattere e di cambiare il mondo della mafia.
Rita è nata il 4 settembre del 1974 a Partanna, un piccolo paese poco conosciuto del comune di Belice, divenuto poi famoso in seguito al terremoto. Rita era figlia del “boss” locale ovvero Vito Atria. Il padre fu ucciso quando la piccola Rita aveva 11 anni, ciò la portò a legarsi con il fratello Nicola e la cognata Piera Aiello. In questo periodo il fratello le “svela” svariati progetti, nomi e azioni fella mafia. Purtroppo però anche il fratello nel giugno del 1991 fu ucciso dalla mafia. In seguito a questo lutto la moglie di Nicola, Piera, presa dalla rabbia incominciò a collaborare con la polizia, così anche Rita prendendo esempio dalla cognata, incominciò a collaborare con la polizia e conobbe il giudice Paolo Borsellino. Sin dal loro primo incontro fra i due ci fu un amore filiale e da quel momento non si lasciarono più. Paolo l’adotto, lei era la sua “picciridda” e per Rita “ zio Paolo” era veramente ragione di vita! Grazie all’intervento di Rita furono arrestati vari mafiosi. Per sicurezza la ragazza viveva a Roma in un indirizzo segretissimo. Qui studiava, ma la sua vita era veramente difficile, non poteva avere vita sociale e doveva essere sempre scortata perché ogni giorno c’era rischio di morte. S’impegnava tanto negli studi; sta di fatto che pochi giorni prima della sua tragica morte, aveva dato l’esame di maturità portando come argomento di tesina Giovanni Falcone .
Purtroppo dopo la strage di “via d’Amelio“ la quale portò la morte di Paolo Borsellino, esattamente dopo una settimana, Rita si lanciò dal settimo piano del suo “palazzo segreto”. La polizia trovò sul tavolo una lettera per Paolo Borsellino dove stava scritto : “Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita.
Tutti hanno paura, ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi.
Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta. Rita Atria”
Così il 26 luglio del 1992 si chiudono per l’ultima volta i dolci occhi neri della piccola Rita.
Al funerale della piccola Rita non si presentarono i compaesani, il suo fidanzato, ma soprattutto la cosa più strana e pazzesca è che a quel funerale non ci fu neanche la madre!
Si presentò solo dopo la cerimonia, si presentò dinanzi la sua tomba con un martello distruggendo la lapide di marmo, e non “contenta” distrusse anche la foto della sua bambina. Non era rabbia per la sua morte, non era dolore, non era la sofferenza della perdita della figlia, non era lutto, era odio, odio per la sua bambina, per ciò che aveva portato in grembo per nove mesi, per il sangue del suo sangue.
““”””Fimmina con lingua longa e amica degli sbirri”, queste furono le uniche parole della madre in quella occasione.
La riteneva una vergogna per tutti i mafiosi le ripeteva in continuazione che doveva farsi i fatti suoi . Era “na Fimmina senza onore” per la madre.
Ma Rita è morta per noi ed è importante che noi la ricordiamo per quello che è stato per quello che è !
HANNAH ARENDT
Hannah Arendt (Linden, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975) è stata una filosofa, storica e scrittrice tedesca naturalizzata statunitense. Emigrata negli Stati Uniti d’America, da cui ottenne anche la cittadinanza, rifiutò sempre di essere categorizzata come filosofa.
Nata da una famiglia ebraica a Linden e cresciuta a Königsberg prima (città natale del suo ammirato precursore Immanuel Kant) e Berlino poi, Arendt fu studentessa di filosofia di Martin Heidegger all’Università di Marburgo. Ebbe una relazione sentimentale segreta con quest’ultimo, scoprendone solo piuttosto tardi le simpatie naziste, da cui si dissociò, non riuscendo tuttavia mai del tutto a cancellare l’amore e la devozione verso il suo primo maestro. Dopo aver chiuso questa relazione, Hanna Arendt si trasferì a Heidelberg dove si laureò con una tesi sul concetto di amore in sant’Agostino.
La tesi fu pubblicata nel 1929, ma a Arendt fu negata la possibilità di venire abilitata all’insegnamento nelle università tedesche nel 1933, per via delle sue origini ebraiche. Dopo di che lasciò la Germania per Parigi. Durante la sua permanenza in Francia Hannah Arendt si prodigò per aiutare esuli ebrei della Germania nazista. Ad ogni modo, dopo l’invasione tedesca (e conseguente occupazione) della Francia durante la seconda guerra mondiale, e la successiva deportazione di ebrei e ebree verso i campi di concentramento tedeschi, Hannah Arendt dovette emigrare anche da qui. Nel 1940 sposò il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher, con cui emigrò (assieme a sua madre) negli Stati Uniti, con l’aiuto del giornalista americano Varian Fry. Dopo di che divenne attivista nella comunità ebraica tedesca di New York, e scrisse per il settimanale Aufbau.
Dopo la seconda guerra mondiale si riconciliò con Heidegger e testimoniò in suo favore durante un processo in cui lo si accusava di aver favorito il regime nazista. Morì il 4 dicembre 1975 in seguito ad un attacco cardiaco, fu sepolta al Bard College, in Annandale sullo Hudson, New York. Nel 1985 a Parigi si tenne un convegno sull’opere della Arendt organizzato da Françoise Collin, filosofa e saggista belga nonché illustre appartenente al Movimento femminista francese; questo ciclo di conferenze aprì la strada ad una innovativa interpretazione del pensiero Arendtiano.
Le opere
I lavori della Arendt riguardarono la natura del potere, la politica, l’autorità e il totalitarismo.
Nel suo resoconto del processo ad Eichmann per il New Yorker (che divenne poi il libro La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme (1963)) Arendt ha sollevato la questione che il male possa non essere radicale: anzi è proprio l’assenza di radici, di memoria, del non ritornare sui propri pensieri e sulle proprie azioni mediante un dialogo con se stessi (dialogo che la Arendt definisce due in uno e da cui secondo lei scaturisce e si giustifica l’azione morale) che persone spesso banali si trasformano in autentici agenti del male. È questa stessa banalità a rendere, com’è accaduto nella Germania nazista, un popolo acquiescente quando non complice con i più terribili misfatti della storia ed a far sentire l’individuo non responsabile dei suoi crimini, senza il benché minimo senso critico.
Scrisse anche Le origini del totalitarismo (1951), in cui tracciò le radici dello stalinismo e del nazismo, e le loro connessioni con l’antisemitismo. Questo libro fu al centro di molte controversie, perché comparava due sistemi che alla maggior parte degli studiosi europei – e anche a molti statunitensi – sembravano diametralmente opposti.
L’opera però che delinea in maniera esemplare la sua teoria politica venne pubblicata nel 1958 con il titolo Vita Activa. La Condizione umana in cui compie una spregiudicata analisi della società di massa ed un’accorata denuncia della condizione dell’uomo contemporaneo condannato a una sostanziale solitudine.
ENRICHETTA CARACCIOLO (Napoli, 1821 – 1901)
Enrichetta Caracciolo nacque a Napoli il 17 Febbraio 1821, figlia di Don Fabio Caracciolo e della nobildonna palermitana Teresa Cutelli. Alla morte del padre, la madre, desiderosa di risposarsi e di restare libera dai precedenti vincoli familiari, la costrinse ad entrare nel convento di San Gregorio Armeno a Napoli.
Nel 1840, all’età di diciannove anni, Enrichetta fu costretta dunque a prendere i voti ma nel 1846 presentò al Papa Pio IX una richiesta di essere sciolta dai vincoli monacali. La sua richiesta però non fu accolta.
Nel 1848, in occasione della prima guerra d’Indipendenza, prese posizione contro i Borboni, per quanto le fosse possibile considerando la sua condizione di monaca, introducendo in convento giornali liberali e denunciando il fenomeno delle monacazioni forzate.
Il 7 Settembre del 1860, quando Giuseppe Garibaldi entrò a Napoli, durante la messa di ringraziamento per la sconfitta dei Borboni, Enrichetta depose sull’altare il velo monacale, lasciando per sempre il convento. Più tardi, nonostante l’età – aveva superato i quaranta anni e dunque all’epoca non era più considerata in età da matrimonio – e il suo trascorso monacale, sposò il patriota Giovanni Greuther e pubblicò un libro di memorie, I misteri del Chiostro Napoletano (1864), che destò grande interesse e fu tradotto in sei lingue. L’opera ebbe un successo immediato in Italia e all’estero, suscitò anche vivaci polemiche per il suo taglio violentemente anticlericale e fu apprezzata anche da personaggi come Manzoni, Settembrini e dal principe di Galles. Inoltre Garibaldi le scrisse una lettera per ringraziarla di alcuni bellissimi sonetti che aveva a lui dedicato.
Nel 1866, anno della terza guerra d’Indipendenza, pubblicò un Proclama alla Donna Italiana in cui esortava le donne a sostenere la causa nazionale. Nel 1867 fece parte del Comitato femminile Napoletano di sostegno al disegno di legge di Salvatore Morelli per i diritti femminili.
Nonostante la sua notorietà e la sua infaticabile attività, Enrichetta non ebbe alcun riconoscimento ufficiale dal governo italiano. Garibaldi, partendo dall’assedio di Capua, non fece in tempo a firmare il decreto con il quale aveva intenzione di nominarla ispettrice agli educandati di Napoli. Riteniamo giusto intitolare una strada di Napoli ad Enrichetta Caracciolo: pur essendo stata una figura molto importante nella storia – partecipò attivamente all’Unità d’Italia e fu tra le prime ispiratrici del movimento femminista – non ha mai goduto di un riconoscimento ufficiale, che giungerebbe ora finalmente da parte della sua Città.
Ammirevole è stato il suo coraggio di esprimere le proprio idee e di raccontare la sua esperienza in un libro, in un periodo in cui era quasi impossibile per una donna ribellarsi, far valere i propri diritti ma soprattutto battersi contro la monacazione forzata
Dobbiamo considerarci fieri di aver avuto una donna di gran valore a Napoli che merita l’intitolazione di una strada cittadina.
Il 17 febbraio del 1600, il filosofo Giordano Bruno fu condannato al rogo dalla Chiesa di Roma per non aver rinnegato le sue idee. Egli è considerato un martire del libero pensiero contro l’oscurantismo e l’intolleranza della religione.
Il 17 febbraio – celebrato da molti come il giorno della libertà di pensiero – potrebbe essere considerato per i napoletani come un giorno doppiamente importante: infatti è anche il giorno della nascita di Enrichetta Caracciolo che – come il filosofo nolano – si è battuta con determinazione fino alla fine dei suoi giorni per difendere ed affermare le sue idee.
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